Sentenza n. 1263 del 4.10.2012 giudice zuliani

REPUBBLICA ITALIANA
In nome del popolo italiano
Tribunale di Udine
sezione civile
Il Tribunale in composizione monocratica, in persona del dott.
Andrea ZULIANI, ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile iscritta al n° 6846/10 R.A.C.C. promossa , con atto di citazione notificato il 15.12.2010 cron. n° 23601 U .N.E.P. di Udine, da - (A) e (B), con i difensori e domm. avvocati ………………., per procure
speciali a margine dell’atto di citazione, Azienda convenuta , in persona del presidente, con il difensore e dom.
avvocato………………. per procura speciale a margine della comparsa avente ad oggetto: risarcimento danni da responsabilità sanitaria.
Causa iscritta a ruolo il 22.12.2010 e trattenuta a sentenza all’udienza di precisazione delle conclusioni del 21.5.2012.
- per parte attrice: “In via preliminare istruttoria: disporsi la
rinnovazione della c.t.u., stante la sussistenza di gravi motivi, con nomina di specialista ematologo con specifica competenza in problemi dott.ssa………. Nel merito: condannarsi la convenuta, in via esclusiva e/o solidale, a risarcire agli attori i danni tutti, nessuno escluso, provocati dai fatti per cui è causa e indicati nelle somme che risulteranno di giustizia o in quella maggiore o minore, che risulterà dovuta in corso di causa, anche all’esito dell’espletanda c.t.u. medico legale, o sarà ritenuta d’equità del giudicante, oltre alla rivalutazione monetaria e interessi compensativi da calcolarsi sulla somma così rivalutata dalla data del 23.12.2005 al saldo effettivo. In via istruttoria: come in memoria ex art. 183, comma 6°, n° 2, c.p.c. di data 4.7.2011.
- per parte convenuta: “Nel merito: come in comparsa di risposta,
anche in via subordinata. In via istruttoria: respingersi le istanze istruttorie di controparte.” Si riportano, quindi, le conclusioni di merito dell’atto richiamato: “… respingere la domanda proposta dagli attori, in quanto assolutamente infondata, previo accertamento e dichiarazione che nessuna responsabilità sussiste in capo alla convenuta in relazione alla morte dalla madre degli attori. Spese rifuse. Nel merito in via subordinata: nella denegata ed improbabile ipotesi in cui venisse accertata … la responsabilità della convenuta, voglia il Tribunale liquidare agli attori il risarcimento che risulterà dovuto iuxta alligata et probata, respingendo comunque la domanda così come formulata in punto quantum dagli attori. Spese quantomeno compensate.” RAGIONI DELLA DECISIONE
Gli attori chiedono la condanna della convenuta al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali connessi alla morte della madre deceduta l’8.1.2006 in esito ad un’emorragia cerebrale. Espongono che la madre venne sottoposta ad intervento di plastica mitralica il 13.12.2005 presso l’ospedale civile di ……. e venne poi dimessa e trasferita presso l’Azienda convenuta il 22.12.2005, con la prescrizione, tra le altre, di terapia anticoagulante con Warfarin finalizzata a mantenere tra 2 e 3 il valore di INR (International Normalized Ratio: si tratta di un indicatore del tempo di coagulazione del sangue; a valori coagulazione). Aggiungono gli attori che, a causa di un insufficiente monitoraggio, durante il ricovero il valore di INR raggiunse invece livelli molto più alti (fino a 10,30), con conseguente elevato rischio di gravi emorragie, rischio che si tradusse in evento effettivo il 7.1.2006, portando la madre al decesso il successivo 8.1.2006, nonostante l’immediato ricovero al reparto neurologico, stroke unit, dell’ospedale di Udine.
Sulla base di queste premesse, gli attori – pur senza indicare un preciso importo complessivo – sottolineano la volontà di ottenere il risarcimento dei “danni tutti, nessuno escluso, provocati dai fatti per cui è causa” ed elencano, nel lungo atto di citazione, le seguenti voci: “danno non patrimoniale iure hereditatis”, per la “perdita del diritto alla vita della madre degli attori”; “danno da ‘agonia’ sofferto dalla madre degli attori, pro quota ereditaria”; “danno per la perdita di chances di sopravvivenza e di cura”; “danno morale sofferto dalla madre degli all’autodeterminazione, per mancato consenso informato”; “danno non patrimoniale iure proprio”, da distinguere ulteriormente in danno da perdita del rapporto parentale, danno biologico iure proprio e “danno morale soggettivo”; danno patrimoniale, a sua volta da distinguere in “lucro cessante” e “danno emergente”.
“Azienda convenuta” nega qualsiasi responsabilità a proprio carico, attribuendo il decesso della madre degli attori ai fattori di rischio connessi al suo pregresso stato di salute, e contesta, in subordine, le considerazioni esposte dagli attori ai fini della quantificazione del In aggiunta alle produzioni documentali delle parti, la causa è stata istruita con l’esperimento di c.t.u. medico-legale.
La domanda degli attori è fondata per quanto riguarda l’accertamento della responsabilità da inadempimento contrattuale della convenuta, da porre in nesso causale con la morte della madre degli attori. Il comportamento colposo addebitato al personale della Azienda convenuta è piuttosto banale e chiaramente esposto nell’atto di citazione. La madre degli attori necessitava, dopo l’intervento di puntualmente prescritta dai sanitari dell’ospedale di……. e che fu regolarmente comunicata al personale della convenuta. Il dosaggio di tale terapia, inizialmente fissato in mezza compressa al giorno di Coumadin, era suscettibile di successive modifiche in aumento o in diminuzione al fine di mantenere il valore di INR tra il minimo di 2 e il massimo di 3. In effetti, al momento del ricovero presso l’ Azienda convenuta (il 22.12.2005), venne eseguito un controllo di quel valore (mediante prelievo sanguigno), il cui esito, il giorno successivo, evidenziava un INR pari a 1,33 e quindi inferiore al minimo. Per questo motivo, e correttamente, il giorno 24.12.2005, un medico dipendente della convenuta aumentò la dose del farmaco a ¾ di compressa al giorno. A quel punto, affermano gli attori, sarebbe stato necessario un frequente monitoraggio del valore di INR e, invece, un successivo prelievo ematico fu effettuato soltanto il 30.12.2005 e, soprattutto, il relativo esito – ovverosia un INR pari a 4,13 – fu annotato in cartella clinica soltanto il 7.1.2006, giorno in cui, alle 9.30, si verificò l’emorragia cerebrale e, da un nuovo controllo effettuato all’ospedale di Udine alle ore 10.48, il valore di INR risultò addirittura pari a 10,30 (mentre per considerare elevatissimo il rischio di emorragia è sufficiente un valore di INR pari a 7). Dunque, il ragionamento di parte attrice è molto semplice: il fatto che sia trascorsa un’intera settimana tra un controllo (23.12.2005) e l’altro (30.12.2005), ma soprattutto il fatto che si sia mantenuto costante il dosaggio di Warfarin per ben due settimane (dal 24.12.2005 al 7.1.2006) senza preoccuparsi di verificarne gli effetti sul valore di INR, integra gli estremi di una grave negligenza rispetto al miglior approccio terapeutico già all’epoca esigibile da una struttura sanitaria; tale negligenza ha determinato l’aumento progressivo del valore di INR fino all’esito dell’emorragia cerebrale e del conseguente I fatti sulla base dei quali gli attori formulano la loro affermazione di responsabilità in capo alla convenuta sono tutti pacifici. La difesa del la convenuta è basata su una diversa valutazione di quei fatti e su un diverso giudizio in merito al nesso causale tra il dosaggio della terapia anticoagulante e l’emorragia cerebrale subita dalla paziente. Nella comparsa di risposta di sostiene, infatti, che “il controllo dell’INR è stato scadenzato secondo tempi usuali che sono quelli di una settimana dilatabili sino a 10 giorni” e che il valore di INR pari a 4,13 (esito del prelievo effettuato il 30.12.2005) è da considerare “ai limiti superiori della norma ma non è possibile dare valenza prognostica a tale elemento”. Inoltre, parte convenuta sostiene che la madre degli attori “era una paziente ad alto rischio” di eventi emorragici per vari fattori indipendenti dalla terapia anticoagulante (“esiti della recente plastica mitralica, una ipertensione arteriosa, la pregressa sarcoidosi bilaterale e la pregressa quadrantectomia sx”), sicché sarebbe impossibile stabilire un nesso causale tra l’ipotizzato eccessivo dosaggio di Warfarin e la successiva emorragia.
Per approfondire e valutare la questione è stata esperita c.t.u., con la nomina a consulente della dott.ssa……., la quale è pervenuta alla conclusione che sia “impossibile … attribuire con certezza l’evento emorragico al livello elevato di trattamento anticoagulante”. Ciò, peraltro, a prescindere dalla condivisione o meno di tale giudizio, non è strettamente rilevante ai fini dell’accoglimento della domanda, posto che l’accertamento della responsabilità in àmbito civilistico si fonda su un giudizio di probabilità del nesso causale e non di certezza assoluta (Cass. 9.6.2011, n°12686; Cass. 17.2.2011, n°3847; Cass. 1 1.6.2009, n° 13530; Cass. 16.10.2007, n° 21619). Con questa necessari a premessa, si deve riconoscere che la relazione della c.t.u. contiene e conferma una serie di elementi dai quali scaturisce l’affermazione della responsabilità contrattuale della convenuta.
Innanzitutto, per quanto riguarda la colpa sanitaria, si dovrebbe rilevare che essa emergerebbe già dal confronto tra quanto sostenuto in comparsa di risposta e quanto effettivamente accaduto nel caso di specie. Come scritto sopra, l’ Azienda convenuta sostiene che i “tempi usuali” per il controllo dell’INR sarebbero stati, in un caso come quello della madre degli attori, di “una settimana dilatabili sino a 10 giorni”. Ma è pacifico che, nel caso di specie, non ci fu alcun controllo effettivo del livello di INR per più di due settimane intere, ovverosia dal 23 dicembre (quando giunse l’esito del prelievo del giorno precedente) al 7 gennaio (quando arrivò, con ritardo notevole ed inspiegato, l’esito del prelievo effettuato il 30 dicembre). Se, dunque, un prelievo ad una settimana di distanza dal precedente avrebbe potuto essere considerato, nella prospettazione di parte convenuta, conforme ai “tempi usuali”, resterebbe comunque la grave negligenza di non essersi preoccupati di ricevere il risultato del secondo prelievo in tempo utile per rispettare i eventualmente necessarie. Ed è ovvio che il rispetto di una determinata tempistica nell’effettuare i prelievi non ha alcun valore in sé, ma è soltanto strumentale alla necessità di conoscere con quella determinata tempistica i risultati dell’esame effettuato dopo il prelievo. Se, dunque, la negligenza del personale sanitario della convenuta è, per così dire, “confessata” in comparsa di risposta, si deve peraltro rilevare che la consulenza tecnica d’ufficio ha smentito che quelli indicati in comparsa di risposta fossero i “tempi usuali” di monitoraggio in un caso come quello della madre degli attori e ha confermato, invece, la necessità di più frequenti controlli, come sostenuto da parte attrice. A pagina 19 della relazione si legge che “I controlli variano da almeno due alla settimana, nelle prime due settimane del trattamento, a una volta ogni 4 settimane in pazienti stabilizzati all’interno del range terapeutico”.
Ebbene, la madre degli attori, da un lato, si trovava ancora nelle prime settimane di terapia anticoagulante (essendo stata sottoposta ad intervenuto chirurgico il 13.12.2005), dall’altro lato, e soprattutto, non era affatto stabilizzata “all’interno del range terapeutico”, posto che il 24 dicembre le era stato riscontrato un valore di INR inferiore al minimo (1,33) e le era stata di conseguenza aumentata la dose di Coumadin (da ½ a ¾ di compressa al giorno). Nello specchietto contenuto nella medesima pagina della relazione della c.t.u. si evidenzia che, in caso di target INR 2,5 (come quello di specie, dovendosi mantenere l’indice tra il 2 e 3) e di riscontro di un valore inferiore a 1,5 (come avvenne nel caso di specie), le linee guida all’epoca accreditate prescrivevano un incremento della dose settimanale di Warfarin del 10/20% e un controllo a distanza di 4-8 giorni. Se si considera che l’assunzione di ¾ di compressa al giorno invece di mezza compressa comporta un aumento della dose del 50% (il che, peraltro, non viene indicato né da parte attrice né dal c.t.u. come un errore di terapia), è evidente che la diligenza e la prudenza avrebbero imposto un nuovo controllo (e la conoscenza del suo esito) perlomeno nel termine più breve suggerito dalle linee guida, ovverosia a 4 giorni di distanza dall’inizio della somministrazione del nuovo dosaggio (e, quindi, il 28 dicembre; non si comprende il diverso giudizio espresso dalla c.t.u. a pag. 23 della sua relazione, ove si legge della necessità di un controllo ogni 7-14 giorni, in netta contraddizione con quanto risulta dallo schema delle linee guida esposto a pag. 19). Del tutto inaccettabile, in ogni caso, che si sia continuato a praticare il dosaggio aumentato senza più ricevere informazioni sul livello di INR per ben 14 giorni. E del tutto ragionevole supporre che quel più elevato dosaggio – di cui è noto che portò il livello di INR da 1,33 (riscontrato il 23 dicembre) a 4,13 (risultante dal prelievo del 30 dicembre) – abbia continuato a determinare un ulteriore aumento nei giorni successivi, portando il livello di INR ben al di là di quel limite di 4,5 oltre il quale il paziente è esposto “ad un rischio emorragico rilevante” e devono essere quindi adottate immediate contromisure (v. pagg. 19 e 20 della relazione della c.t.u.). Del resto, significativo riscontro oggettivo di tale ulteriore incremento dell’INR è dato dal risultato del prelievo effettuato il 7 gennaio (10,30). Né può essere dato alcun rilievo, in senso contrario, alla circostanza, sottolineata dalla difesa di parte convenuta (e ripresa dalla c.t.u. alle pagg. 22 e 23 della sua relazione), che “alla rimozione dei punti di sutura effettuata il 3.1.2006 non vi era alcun segno clinico che facesse sospettare una condizione di scoagulazione massiva” (v. pag. 4 della comparsa di risposta). Infatti, le linee guida prese in considerazione dalla c.t.u. prevedono l’ipotesi che il valore di INR risulti maggiore di 9 e inferiore a 20 “senza sanguinamento in atto” e, in quel caso, prescrivono di “sospendere Warfarin e somministrare per os 3-5 mg. di vitamina K”. Dunque, l’assenza di sanguinamenti e di altri segni clinici di scoagulazione non è affatto incompatibile con valori di INR tali da comportare un altissimo rischio di emorragie e la necessità di immediati interventi correttivi nella terapia.
Per venire, quindi, al nesso causale tra l’accertata colpa medica della convenuta e la morte della paziente, irrilevante essendo il giudizio di mancanza di una assoluta certezza espresso dalla c.t.u., si tratta stabilire – alla luce della già citata giurisprudenza di legittimità – se l’ipotesi che il decesso della paziente sia stato la conseguenza del mancato adeguamento del dosaggio di Warfarin sia più probabile che non l’ipotesi che esso sia stato determinato da qualche altro fattore. La risposta non può che essere affermativa, sulla base delle valutazioni espresse sul punto dalla c.t.u. e che non sono state contestate da parte convenuta. Infatti, a pag. 24 della relazione della consulente d’ufficio vengono presi in considerazione i fattori che esponevano la paziente al rischio di emorragie. Tra questi, quello di gran lunga più rilevante (Rischio Relativo pari a 5,96) è proprio il “valore di INR > 4,5”. Si tratta di un indice di rischio da solo superiore alla somma degli altri tre indicati dalla c.t.u. (1,69 + 1,72 + 1), senza contare che negli otto giorni successivi al 30 dicembre ci fu tutto il tempo perché il valore di INR della paziente (passato in soli sei giorni da 1,33 a 4,13) si elevasse ben Si tratta, quindi, di liquidare i danni subiti dagli attori, le cui Innanzitutto, non è conforme alla giurisprudenza di legittimità e non merita accoglimento la pretesa di vedersi risarcito, iure hereditatis, il “danno da perdita del diritto alla vita della madre degli attori”. Infatti, “Non è risarcibile [recte: accoglibile] la domanda di risarcimento del danno da ‘perdita del diritto alla vita’, o danno tanatologico, proposta iure hereditatis dagli eredi del de cuius, in quanto la lesione dell’integrità fisica con verificarsi dell’evento letale immediatamente o a breve distanza di tempo dall’evento lesivo non è configurabile come danno tanatologico, in quanto comporta la perdita del bene giuridico della vita in capo al soggetto, che non può tradursi nel contestuale acquisto al patrimonio della vittima di un corrispondente diritto al risarcimento, trasferibile agli eredi, attesa la funzione non sanzionatoria ma di reintegrazione e riparazione degli effettivi pregiudizi svolta dal risarcimento del danno, e la conseguente impossibilità che, con riguardo alla lesione di un bene intrinsecamente connesso alla persona del suo titolare e da questi fruibile solo in natura, esso operi quando la persona abbia cessato di esistere, non essendo possibile un risarcimento per equivalente che operi quando la persona più non esiste.” (Cass. 16.5.2003, n° 7632). Del resto, che non poss a dirsi verificato l’evento perdita della vita se non al momento della morte e che la vittima non possa più acquisire, in quel momento, un credito risarcitorio da trasmettere agli eredi è considerazione piuttosto ovvia; ma, ciò che più conta, davvero non si vede come il riconoscimento agli eredi di un credito per il risarcimento del danno consistente nella perdita del diritto alla vita del de cuius potrebbe essere considerato un irrinunciabile corollario del carattere inviolabile di quel diritto, quasi che (come implicitamente prospettato da nell’atto di citazione) negare il credito pecuniario agli eredi significasse negare o limitare il diritto alla vita del de cuius e la sua inviolabilità (e si noti che gli eredi non sono necessariamente gli stretti congiunti del de cuius e, nemmeno, in caso di eredità passiva, i soggetti destinati a trarre effettivo vantaggio avvantaggiarsene i creditori del de cuius, eventualmente avvalendosi degli strumenti a tal fine approntati dal codice: v. artt. 512 e ss., 528 e Gli attori si richiamano, invece, ad un consolidato orientamento giurisprudenziale laddove invocano il diritto al risarcimento, sempre iure hereditatis, del c.d. “danno da agonia” (v., ex multis, Cass. 8.4.2010, n° Sennonché tale richiamo è basato su un’errata ricostruzione del caso concreto laddove gli attori affermano che ci sarebbero stati “ben 16 giorni, durante i quali la madre degli attori era consapevole del fatto che la vita stava lentamente spirando dal suo corpo, spaventata e in preda a infinite inquietudini: ma soprattutto subiva l’inesorabile insulto di un’aspettativa di guarigione tradita” (pag. 37 dell’atto di citazione). Ciò afferma la difesa di parte attrice prendendo in considerazione il tempo trascorso tra il primo controllo del valore di INR (23 dicembre) e il giorno della morte (8 gennaio). Ma davvero non si riesce a comprendere perché, e in che senso, la madre degli attori avrebbe dovuto essere consapevole della sua fine imminente e percepire l’insulto di una aspettativa di guarigione tradita a partire dal giorno del primo controllo dell’INR presso l’ Azienda convenuta. Di un c.d. “danno tanatologico catastrofale” si sarebbe potuto discorrere a partire dal momento in cui si verificò l’emorragia cerebrale (il 7 gennaio) e fino al momento della morte (il giorno successivo), ma parte attrice non ha nemmeno allegato che ci sia stata, in questo intervallo, quella “lucida agonia” che secondo la giurisprudenza costituisce il presupposto di fatto del riconoscimento agli eredi di tale voce di danno.
Del tutto avulsa rispetto al caso concreto è anche la richiesta di risarcimento del danno da “lesione del diritto all’autodeterminazione … per mancato consenso informato”, rimasta peraltro priva di qualsiasi spiegazione (v. pagg. 40 e 41 dell’atto di citazione). È appena il caso di rilevare che non si tratta, nel caso di specie, di una conseguenza indesiderata e prevedibile di un certo trattamento terapeutico, bensì di un decesso conseguito ad un trattamento terapeutico inadeguato sul quale non avrebbe certo potuto essere raccolto alcun consenso Viene, quindi, in considerazione il danno morale ed esistenziale iure proprio che gli attori hanno sicuramente patito per la perdita del rapporto con la madre. Si tratta di un danno squisitamente non patrimoniale per la cui traduzione in termini monetari è inevitabile ricorrere a criteri equitativi (art. 1226 c.c.) che diventerebbero addirittura arbitrari se non restassero ancorati, da un lato, ad una compiuta analisi delle caratteristiche obiettive del caso concreto (rapporto di parentela, età della vittima e del congiunto, convivenza o meno, intensità della frequentazione, .) e, dall’altro lato, a valori monetari tendenzialmente standardizzati in presenza di situazioni analoghe. A tal fine, vengono seguite nei vari tribunali “tabelle” che individuano tipi di rapporto di parentela e vi associano importi minimi e massimi risarcibili, al cui interno il giudice deve valorizzare le altre caratteristiche del caso concreto, quali esse emergono dalle prove offerte da parte attrice o Le tabelle aggiornate da questo tribunale nel 2010 per garantire una certa uniformità di giudizi in casi oggettivamente simili tra loro distinguono tra perdita del genitore convivente e perdita del genitore non convivente. Nel primo caso prevedono un risarcimento minimo di € 75.000 ed uno massimo di € 300.000; nel secondo caso un risarcimento minimo di € 30.000 ed uno massimo di € 130.000. Si tratta di importi notevolmente diversi rispetto ai valori espressi nella tabella in uso presso il tribunale di Milano (minimo € 154.350, massimo € 308.700, senza alcuna distinzione tra figli conviventi e non conviventi), alle quali – secondo una certa giurisprudenza di legittimità (Cass.
7.6.2011, n° 12408) – dovrebbe essere attribuita una sorta d i rango di norma vincolante in tutta Italia. Peraltro, in questa parte, la tabella del Tribunale di Milano non merita di essere condivisa, perché affetta da inaccettabile irrazionalità (o, in altri termini, da inidoneità a tenere adeguato conto delle possibili differenze dei casi concreti da giudicare) innanzitutto laddove tratta in modo esattamente equivalente i casi, potenzialmente assai diversi, della morte del genitore e della morte del figlio (anche per questa, infatti, sono previsti un minimo di € 154.350 ed un massimo € 308.700). È facile obiettare che la morte del genitore è un evento prevedibile e “naturale” nella vita di qualsiasi persona, mentre invece la morte di un figlio o di una figlia è una sofferenza che chiunque potrebbe ben sperare di non dover patire mai. Inoltre, mentre la perdita del figlio è un evento contro natura a qualsiasi età essa si verifichi (anche nel caso di figlio anziano e di genitore “molto anziano”), la perdita del genitore assume un significato esistenziale assai diverso a seconda dell’età dei soggetti coinvolti (per un bambino, perdere il padre o la madre è un evento sconvolgente destinato ad incidere pesantemente sulla sua vita futura, affettiva e pratica; per un anziano la perdita di un genitore – anche se anticipata in maniera improvvisa in conseguenza di un sinistro – è sempre un fatto ampiamente previsto e, normalmente, non determina significativi cambiamenti nelle abitudini di vita del superstite). Quindi, la tabella di Milano non è condivisibile, sia perché equipara la perdita del genitore alla perdita del figlio, sia perché prevede una forbice troppo esigua tra minimo e massimo rispetto all’enorme varietà di fattispecie concrete rientranti nella categoria Detto questo, nel caso di specie, si devono distinguere la situazione di (A), figlio convivente con la madre finché questa fu in vita, da quella di (B), residente nelle Marche e il cui “legame esistenziale” (anche se non quello affettivo) doveva essersi già allentato, come è normale che avvenga quando i figli diventano adulti e si trasferiscono altrove, magari formando un’altra famiglia e, sicuramente, stabilendo nuove relazioni sociali e amicali. Altro elemento di cui tenere conto è quello dell’età della vittima (74 anni) e di ciascuno degli attori (44 anni per (A) e 47 per (B)). Tali sono i pochi elementi oggettivi conosciuti, null’altro risultando dai documenti prodotti e nulla potendo aggiungere le vaghe e generiche affermazioni e, più spesso, le mere valutazioni contenute nei capitoli di prova orale dedotti nella memoria 4.7.2011. Le allegazioni di parte attrice mancano del tutto della concretezza necessaria per meglio apprezzare l’incidenza esistenziale della morte della madre. Non è dato di sapere – per esempio – se uno degli attori o entrambi siano (o siano stati) sposati o meno, se abbiano a loro volta figli, quale lavoro svolgano, se il figlio ……… viva da solo o conviva con altre persone. Alla stregua di tali considerazioni e sulla base dei pochi aspetti concreti noti, si ritiene equo concretizzare le previsioni della tabella nella misura di € 220.000, per il danno non patrimoniale subìto da (A), e di € 110.000 per quello subito da (B). Gli importi sono espressi Gli attori chiedono, inoltre, il risarcimento del danno alla salute, affermando che “la grande sofferenza [per la perdita della madre] si è gradualmente trasformata in una riduzione persistente del tono dell’umore, accompagnata da ansia, sfiducia nel futuro, sentimenti di inutilità, di rabbia, senso di vuoto e di mancanza, stati d’animo che persistono anche attualmente”, ovverosia in “un quadro psicologico compatibile con una condizione di depressione cronica, che affonda le sue radici in una sofferenza talmente intensa da essere degenerata in patologia di natura psichica.” Si tratta, peraltro, di valutazioni generiche (tanto più in quanto riferite indifferentemente ad entrambi i fratelli), che non sono state supportate dalla produzione di alcun documento medico, sicché si deve presumere che la “depressione” sia stata autodiagnosticata in modo empirico. È invece evidente che lo stato patologico dovrebbe essere dapprima dimostrato in termini rigorosi, per poi procedere all’accertamento – eventualmente mediante c.t.u. – della non scontata esistenza di un nesso causale tra la morte del congiunto e Rimane, infine, da considerare il danno patrimoniale di cui gli attori chiedono il ristoro. Nessun problema per quanto riguarda il danno emergente per spese funerarie, che compete ad (B) ed ammonta complessivamente ad € 1.423,43 (v. docc. sub. n° 20 di parte a ttrice), in valori monetari dell’epoca, che si traducono – con un minimo arrotondamento – in attuali € 1.650, in base agli indici ISTAT, così da rendere questa voce di danno omogenea a quella relativa al danno non Non può trovare invece accoglimento la singolare domanda di condanna della convenuta al risarcimento di un preteso danno da lucro cessante connesso alla perdita delle “provvidenze aggiuntive” che la madre avrebbe presumibilmente destinato ai figli, danno che viene definito in citazione “notevole” e per la cui liquidazione ci si rimette all’equità del giudice. Ora, gli attori allegano e documentano (v. docc.
n° 12, n° 14 e n° 15) che la settantaquattrenne godeva, nel 2005, di redditi pensionistici per l’importo annuo lordo di € 12.676,94, cui corrisponde un reddito netto di circa € 11.000, pari ad € 920 mensili. Si tratta di un reddito di pura sopravvivenza e, quindi, tale da non permettere costanti “provvidenze aggiuntive” in favore di due figli più che adulti. Sia pure considerando che il (solo) figlio convivente (A) ha documentato di avere avuto a sua volta redditi assai bassi nel 2005, nell’anno precedente e in quello successivo (v. docc. n°16, n°17 e n° 18 di parte attrice), una prassi sistematica di (accetta te e non ricambiate) provvidenze economiche da parte della madre titolare di quei modesti assegni pensionistici non appare davvero credibile (a meno di dover ipotizzare una grave contraddizione rispetto alle professioni di devoto amore filiale formulate in causa dagli attori).
In definitiva, il danno subito da (A) rimane determinato in € 220.000, in valori monetari attuali, mentre quello subìto da (B) viene fissato in € 111.650, sempre in valori monetari attuali. Riportati ai valori della moneta dell’epoca dell’evento, gli importi capitali si riducono ad arrotondati € 190.650 ed € 96.760, rispettivamente (sulla base degli indici ISTAT desunti dal sito internet Avvocati.it). Oltre al capitale, saranno dovuti gli interessi compensativi – nella misura equitativa annua del 3% – calcolati sugli importi originari devalutati, dall’evento alla data di pubblicazione della presente sentenza, e gli interessi al tasso legale sugli importi rivalutati dalla pubblicazione della sentenza al Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo, con riferimento al valore della causa “indeterminabile”, in quanto prescelto da parte attrice al momento dell’iscrizione a ruolo e meno favorevole alla parte stessa rispetto al valore risultante dalla decisione. La liquidazione segue in dispositivo, in applicazione dei parametri di cui all’art. 9 del d. legge n° 1 del 2012, convert ito in legge n° 27 del 2012, e del D.M. 20.7.2012, n° 140. Anche le spese di c .t.u.
vengono poste definitivamente a carico di parte convenuta, ferma la solidarietà di tutte le parti costituite nei confronti della consulente.
La sentenza è provvisoriamente esecutiva ex lege (art. 282 Il Tribunale, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando nella causa civile iscritta al n° 6846/10 R.A. C.C.
promossa, con atto di citazione notificato il notificato il 15.12.2010 da (A) e (B) contro “Azienda convenuta”, così decide: accertata la responsabilità contrattuale della convenuta in nesso causale con il decesso della madre degli attori, condanna “Azienda convenuta” al risarcimento dei danni in favore degli attori, danni che liquida, in valori monetari attuali: quanto a (A), in € 220.000; quanto ad (B), in € 111.650; con l’aggiunta degli interessi compensativi, nella misura equitativa annua del 3%, sugli importi originari devalutati, rispettivamente di € 190.650 e di € 96.760, dall’evento (8.1.2006) alla data di pubblicazione della presente sentenza e degli interessi legali sulle rispettive somme rivalutate da tale data al saldo; condanna la convenuta al pagamento, in favore solidale degli attori, delle spese di lite, che liquida in risultanti € 4.892, di cui € 392 per esborsi ed € 4.500 per compensi (€ 1.200 per la fase di studio; € 600 per la fase introduttiva; € 1.200 per la fase istruttoria; € 1.500 per la pone le spese di c.t.u. definitivamente a carico di parte convenuta, ferma la solidarietà delle parti costituite nei confronti della dà atto che la presente sentenza è provvisoriamente esecutiva Così deciso in Udine, lì 1°.10.2012.

Source: http://cameracivileudine.it/massimario/wp-content/uploads/2013/05/Sentenza-n.-1263-del-4.10.2012-Giudice-Zuliani.pdf

Gomes et al., 2010 adm rhcg

L. Mramba et al. / International Journal of Gynecology and Obstetrics 108 (2010) 152–160procedure and the injury was repaired shortly after the incarceration. In the first case the patient underwent hysteroscopy and laparoscopy5 years after the surgical termination [3]. When uterine perforation is suspected based on an abnormalfinding in the retrieved material, although rare, tubal incarc

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Introduction to How Lobotomies Work It's evening in a mental hospital in Oregon, and there's a struggle happening between a noncompliant patient and the head nurse. Because of the violent patient's actions, the head nurse has him committed to a special ward for patients deemed "disturbed." He also undergoes a lobotomy -- an operation in which the connections between the frontal lob

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