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I primi documenti di una certa rilevanza culturale nella nostra storia letteraria si
incentrano soltanto tra la fine del XII e l’inizio XIII secolo. Ma la progressiva
trasformazione in volgare del latino parlato nella tarda età imperiale era in corso già da
parecchio tempo, tanto l’idioma volgare era entrato con forza nell’uso delle classi meno
colte. Se volessimo in qualche modo fissare gli estremi cronologici di tale
trasformazione possiamo scegliere – in maniera del tutto convenzionale, visto che le
date sono palesemente inefficienti a determinare i fenomeni dello spirito – come inizio il
476 (cioè l’anno che segna la rottura definitiva dell’unità politica del mondo romano e la
nascita dei regni barbarici in Italia), e come fine il 960, anno in cui compare il primo
testo di una certa ampiezza scritto nella nuova lingua. Del resto, già dai primi secoli
dell’era cristiana si poteva scorgere questo processo di trasformazione linguistica, tanto
che un anonimo maestro del III secolo correggeva nell’Appendix probi gli errori più
frequenti che venivano commessi nella lingua del suo tempo (vetulus non veclus, auris non oricla, calida non calda, columna non colomna, ecc.).
Non è certo senza curiosità che i glottologi hanno esaminato il povero latino delle
antiche carte notarili, per scoprirvi le prime tracce del linguaggio nuovo che le plebi
venivano lentamente elaborando, in margine alla loquela dotta tramandata dai padri e
sempre meno viva nell’uso e nella coscienza dei parlanti. Già nei documenti del settimo
e dell’ottavo secolo appaiono denominazioni di luoghi e forme sintattiche prettamente
volgari, ed il discrimine sottile che separa l’idioma quotidiano dalla nuova forma
nascente, si indovina con facilità sotto l’andamento, che pur si sforza di mantenersi il
più possibile corretto, di certe scritture notarili:
Wernefrit gastaldius mihi dicebat: “Ecce missus venit inquirere causa ista; et tu, si interrogatus fueris, quomodo dicere habes?”. Ego respondi ei: “Cave ut non interroget; nam, si interrogatus fuero, veritatem dicere habeo”. Sic respondit mihi: “Ergo tace tu viro qui est missus domni regi”. Modo me invenisti et non te posso contendere.1
Della fine dello stesso secolo cui appartiene il documento appena citato, o del
principio del secolo seguente, è il cosiddetto Indovinello Veronese, steso sulla pagina
bianca di un codice di preghiere e allusivo all’arte dello scrivere, che è forse il più antico
discorso verseggiato giunto fino a noi in un idioma romanzo:
1 Breve de inquisitione, Siena, 715. «Guarnifredo gastaldo mi diceva: “Ecco è arrivato il messo ad inquisire questa causa; e tu, se sarai interrogato, come dirai?”. E io gli ho risposto: “Bada che non mi interroghi; perché, se sarò interrogato, dirò la verità”. Mi rispose così: “Taci dunque a quegli che viene come inviato del re”. Ora mi hai trovato, e non posso sottrarmi a te.»
albo versorio teneba, negro semen seminaba.2
«Il primo documento dove l’uso d’un volgare italiano, consapevolmente ed
esplicitamente distinto dal latino e sintatticamente articolato in frasi autosufficienti,
trova registrazione e riceve sanzione ufficiale»3 è un placito capuano del 960, nel quale
– per una controversia di confine tra l’abbazia di Montecassino ed un piccolo feudatario
– viene riprodotta, in un contesto che è ancora latino, per quanto sregolato e
volgareggiante, la formula testimoniale in volgare pronunciata davanti al giudice:
Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sante Benedicti.4
Del 1087 è la cosiddetta postilla amiatina, una specie di scongiuro, conservata su
una carta notarile, che presenta una veste latineggiante, ma che può essere così
Fra i documenti più tardi ricorderemo le frasi in volgare che si leggono sotto le
pitture scoperte fra i ruderi della basilica inferiore di San Clemente a Roma, relative ad
un miracolo compiuto da questo santo; il frammento cassinense di un Pianto della Madonna; il Sant’Alessio6 marchigiano, di ambiente benedettino; il Ritmo laurenziano,
che prende nome dalla biblioteca di Firenze che lo conserva, nel quale un giullare
toscano chiede al Vescovo di Jesi di donargli un cavallo; il Ritmo cassinense, conservato
a Montecassino, che presenta un contrasto tra un saggio orientale, tutto teso al distacco
dai beni terreni, ed un occidentale dallo spirito pratico, tutto intriso di buon senso e
preoccupato del mangiare e del bere. Sono invece un falso settecentesco dell’abate
Baruffaldi i quattro endecasillabi che costituiscono l’iscrizione del duomo di Ferrara, e
che erano stati datati come poco posteriori al 1135. In essi, con una certa genialità e per 2 Spingeva avanti i buoi [cioè le dita], arava i bianco prato [il foglio di carta], e teneva il bianco aratro [la penna d’oca], e seminava una nera semente [l’inchiostro]. 3 A. Roncaglia, nel volume collettivo Le origini, Ricciardi, Milano-Napoli 1956, pag. 190 4 So che quelle terre, entro quei confini che qui si descrivono, le ha tenute in possesso per trent’anni l’amministrazione patrimoniale di San Benedetto. 5 Questa carta è di Capocotto [soprannome, simile a Testacalda] e gli dia aiuto contro il ribaldo [o addirittura il Maligno?] che malvagio consiglio gli mise in corpo. 6 Poemetto giuntoci mutilo, che propone la casta virtù del giovane Alessio votato a Dio e forzatamente costretto al matrimonio.
gusto squisitamente campanilistico, l’autore dichiarava d’avere letto sopra ad un
affresco (ovviamente perduto) una frase che con la data antica del tempio e del suo
autore («Nicolao scolptore»), assicurava a Ferrara un primato come culla dell’italiano
Tuttavia non si deve credere che il linguaggio volgare sia sorto soltanto in quel
torno di tempo che abbiamo fin qui delimitato e che possiamo rinvenire nei documenti.
La ripugnanza ad usare nelle scritture un idioma che si considerava basso e plebeo7,
estromettendo il latino tradizionale, dovette durare a lungo ed assai viva: e fu soprattutto
sotto la spinta di esigenze pratiche (come, ad esempio, riportare esattamente le parole di
un testimone) che tale ripugnanza alfine fu vinta. Altresì, è anche assurdo il pensare –
sebbene sia incontestabilmente vero che un linguaggio non nasce mai né muore da un
giorno all’altro, ma è il frutto di una lenta e progressiva evoluzione – che il nostro
italiano altro non è se non l’antico latino, quale a poco a poco si è venuto trasformando
nell’uso parlato attraverso i secoli. Questa è soltanto una mezza verità, che richiede
d’esser meglio esaminata e approfondita, per liberarla dagli errori e dai pregiudizi ai
Il latino letterario s’era forgiato all’epoca della Roma repubblicana sulla base di
un idioma quotidiano, depurato, regolamentato e nobilitato: è logico quindi pensare che
alle origini il divario tra il latino parlato e quello scritto doveva essere alquanto
modesto. Ma mentre la lingua scritta, per sua natura stessa conservativa, emanazione
sociale e culturale di quell’elite che l’aveva formata e codificata nelle sue norme severe,
finiva per restare immobile nelle sue strutture essenziali, quella parlata invece non cessò
mai di evolversi, fino a divenire, in epoca imperiale, un’entità libera e vivace. Dunque, il
latino parlato, o volgare (da vulgus, popolo), riceveva di volta in volta diversa
intonazione e coloritura a seconda delle classi, degli ambienti, dei diversi mestieri e dei
luoghi: cosicché gli antichi poterono discorrere di un sermo plebeius, proletarius,
rusticus, militaris, a designare rispettivamente linguaggi o gerghi dei plebei, dei
proletari, dei campagnoli, dei militari; e distinguere un sermo cotidianus, o familiare, e
un sermo urbanus caratteristico propriamente di Roma. È chiaro che latino letterario e
latino volgare non si pongono fra loro come due lingue diverse, bensì nello stesso modo
in cui oggi, da un lato, la lingua degli scrittori, mutevole nelle singole determinazioni,
ma pur generalmente caratterizzata da un lessico scelto, da precisione di costruzioni ed
7 E perciò appunto si denominava volgare, con designazione dispregiativa, che rimase poi, più o meno sentita e rispondente ad una profonda persuasione, fino a tutto il Cinquecento.
eleganza di forme; e, dall’altro lato, i numerosi dialetti e i vari gerghi di classe e di
mestiere, più semplici e spontanei, e tanto più vicini a loro volta alla lingua scritta
quanto più cresce l’autorità e la cultura di coloro che ne fanno uso. Sebbene tanto gli
idiomi letterari quanto quelli parlati si vengano col tempo a poco a poco trasformando,
pur le storie di queste trasformazioni si svolgono, per così dire, su due strade diverse e
parallele. L’evoluzione del latino letterario è documentata ampiamente nelle opere degli
scrittori, da quelli dell’età di Cesare a quelli del Medioevo, fino agli scrittori umanisti
del nostro Rinascimento, che alla tradizione più antica e pura vollero coscientemente e
non senza sforzo collegarsi. Il latino parlato, invece, specialmente nelle sue varietà più
umili ed incontrollate, nelle sue differenziazioni regionali, nel suo progressivo evolversi,
ci sfugge quasi completamente e dobbiamo accontentarci di ricostruirlo per frammenti,
in base alle interpretazione delle notizie fornite dalle iscrizioni e dai graffiti, dagli
antichi glossari e perfino da certe opere letterarie. Inoltre bisogna ricordare che nel
momento in cui l’impero romano impronta della sua civiltà tutti i paesi dell’Europa
occidentale, estende ovunque l’uso della sua lingua, assorbendo popolazioni allofone,
che se all’inizio potevano subire passivamente l’influenza linguistico-culturale romana,
in un secondo tempo, con la decentralizzazione dell’Impero e la sua conseguente perdita
di prestigio, divennero forze attive nel processo di alterazione della lingua: in altre
parole, nel momento stesso in cui il latino volgare riduceva al silenzio gli idiomi
originari dei popoli vinti, doveva pure venire a patti con talune forme peculiari della loro
pronuncia o assorbire qualche vocabolo o qualche movenza dell’antico linguaggio e
insomma alterarsi più o meno profondamente.
«Fin che durò la coesione strutturale della società intorno alla classe dominante e
poterono agire con continuità ed efficacia le forze di trasmissione della cultura elaborate
da quella classe, le tendenze innovative rimasero infrenate e disciplinate, e le differenze
tra lingua letteraria e uso parlato restarono contenute entro l’ambito stilistico. Ma con la
crisi della società, s’allenta il circolo vitale della cultura, si restringe il pubblico
letterario sensibile al prestigio dei vecchi modelli; e di fronte al dinamismo della lingua
parlata, la scuola risulta impotente ad assicurare il mantenimento della norma classica,
insufficientemente assimilata dalle masse popolari»8. Per cui, quando nel V secolo si
rompe la compagine dell’impero e si affievoliscono a poco a poco i rapporti fra le varie
regioni che ne facevano parte, i diversi volgari latini poterono evolversi più
speditamente e senza ostacoli, ciascuno con le sue differenze ed alterazioni. E questi 8 A. Roncaglia, nel volume collettivo Le origini e il Duecento, Garzanti, Milano 1965, pag. 22-23.
latini volgari altro non sono che le antiche forme dei linguaggi tuttora parlati
nell’Europa romana: quei linguaggi che si è soliti definire romanzi, o più esattamente
neolatini. Gli idiomi romanzi derivano gran parte del loro lessico dal latino antico; ed
anche quei vocaboli che essi ripresero dai Germani, dai Greci e dagli Arabi non bastano
ad alterarne la sostanza: scostandosi dalla morfologia e dalla sintassi del latino classico
non fanno che riprodurre, accentuandole, certe condizioni peculiari del latino parlato.
I linguaggi neolatini sono moltissimi (parte di essi sono tutt’ora vitali) e si
possono raccogliere in alcuni gruppi fondamentali: gli idiomi portoghesi, spagnoli e
catalani nella penisola iberica; i francesi, provenzali e franco-provenzali nelle Gallie, in
parte della Svizzera e del Piemonte; gli italiani, i sardi; i romanci o ladini nel Friuli, nel
Trentino e nel Canton dei Grigioni; ed infine i romeni nella antica Dacia. Alla loro
origine tutti i volgari hanno carattere di linguaggi parlati e non scritti, ma nel corso del
tempo passano anch’essi all’uso scritto, contrapponendosi al latino, e divenendo a loro
volta nuovo idioma letterario. Questa trasformazione del linguaggio coincide, com’è
naturale, col nascere di una nuova cultura e con la sua espansione in un mondo più vario
e più vasto. Naturalmente non tutti i volgari riescono a compiere questo passo: nei
confini di ciascuna nazione un solo idioma s’elabora e si trasforma, sollevandosi sugli
altri fino ad assumere la funzione di lingua letteraria. Quel volgare perde allora in parte
le sue caratteristiche locali per adeguarsi al suo più vasto compito, e pur mutando
anch’esso tende ad una relativa stabilità lessicale e regolarità sintattica.
Ciò che qui ci interessa analizzare è la nascita della lingua italiana, o meglio la sua
formazione, che si sviluppa appunto con la letteratura fra il XIII ed il XIV secolo, ma
preparata e favorita da particolari condizioni sociali, economiche e politiche. In quegli
ultimi secoli del Medioevo le differenze fra i vari volgari9 sorti in Italia erano già
notevoli: per alcuni, come quelli della Toscana, la distanza che li separava dal latino
parlato era minima, in altri invece appariva maggiore o addirittura massima. Gli urti ed i
contatti politici, nonché i frequenti rapporti commerciali, mantenevano vive e costanti le
relazioni fra le varie parti della penisola, creando l’uso quotidiano del linguaggio tra
uomini di terre diverse, e ciò favoriva da una parte l’attenuazione delle maniere più
spiccate e delle forme più tipiche di ciascun idioma, dall’altra l’assorbimento di
9 In riferimento alle varie lingue regionali (toscano, siciliano, umbro, ecc.), di parla qui di idiomi volgari e non di dialetti, poiché – per quanto il termine dialetto identifichi un sistema linguistico di ambito geografico limitato, che soddisfa solo alcuni aspetti e non altri delle umane esigenze espressive – essi si definiscono in rapporto ad una lingua dominante. Solo con il graduale processo di evoluzione del volgare toscano (che va dal Tre al Cinquecento), ed il conseguente prestigio acquisito come lingua letteraria nazionale, relegherà le altre parlate al rango di dialetti.
vocaboli e modi dell’idioma altrui, così da giungere ad una sorta di lingua comunemente
intesa. Coloro che, nelle varie regioni d’Italia, dettarono le prime scritture in volgare,
furono spinti ad adoperare un idioma che, pur mantenendo certe peculiarità locali, non
corrispondeva però esattamente a nessun determinato volgare; e ciò perché intendevano
da un lato essere compresi da un pubblico più vasto, dall’altro perché erano spinti dal
bisogno di dare alla lingua una certa uniformità di costruzioni ed un lessico scelto. In
particolar modo una tale tendenza ebbe a manifestarsi negli scrittori della corte di
Federico II di Svevia, che crearono i primi tentativi di una poesia lirica nazionale.
Sebbene il fondo della lingua da essi adoperato sia il volgare siciliano, si tratta di un
siciliano singolarmente trasformato e raffinato, ripulito di tutti quei vocaboli che
potevano sembrare troppo realistici o plebei, modellato nei costrutti sull’esempio del
latino, arricchito di locuzioni tolte ad altri volgari, e infine non estraneo a certe cadenze
della lirica provenzale. La lingua poetica della scuola siciliana divenne per un certo
tempo la lingua letteraria della nazione, restandolo anche dopo la fine della potenza
sveva (1266): una lingua che per certi aspetti risultava convenzionale ed artificiosa, che
per desiderio di ricercatezza diveniva povera e monotona, e che rispondeva ai chiusi
costumi di una ristretta classe di persone colte; una lingua destinata perciò ad intristire
lentamente, poiché non si rinnovava di continuo nella ricchezza e freschezza inventiva
Ben presto, però, il primato dell’attività letteraria passò alla Toscana, e la lingua
poetica, pur conservando in parte le caratteristiche che gli erano state impresse dalla
scuola Siciliana, venne in vario modo arricchendosi di nuove forme e maniere: sia
perché le liriche più antiche e veramente siciliane, trascritte in copie sempre più
numerose nella nuova terra di adozione, vedevano alterarsi in parte e gradualmente la
loro veste linguistica, diffondendosi poi così deformate in ogni parte d’Italia; sia perché
i nuovi poeti, e sopratutto quelli del dolce stil novo che a Firenze rinnovarono i modi di
quella nostra prima poesia, non potevano non risentire di quell’ambiente linguistico nel
quale vivevano ed operavano. Ma per quanto fiorentina, la loro era pur sempre una
lingua idealizzata e convenzionale, uniforme e povera di rilievo, delicata ed
aristocratica. Fu Dante Alighieri che diede alla lingua italiana una maggior ricchezza di
suoni e varietà di costrutti, una maggiore aderenza all’uso vivo e rinnovatore della
lingua del popolo, imprimendole al tempo stesso il sigillo della tradizione fiorentina.
Dopo Dante, ovviamente, la lingua poetica ha continuato a mutare secondo
l’indole, l’educazione intellettuale, le compiacenze ed i diversi e originali problemi
artistici dei singoli scrittori. E la storia della lingua poetica è, appunto, la storia stessa
della nostra letteratura. Tuttavia non si è venuta lentamente modificando solo la lingua
letteraria, poiché anche l’idioma parlato dalle classi medie e colte della penisola, lo
strumento immediato dei commerci e delle relazioni intellettuali, politiche ed
economiche fra le varie parti d’Italia, ha subito mutazioni: eppure ancor oggi esso è,
nella sostanza, quello che Dante con l’esempio additò e promosse, e cioè il volgare di
Firenze, che grazie ad una maggiore severità di costrutti, di suoni, di scelta dei vocaboli,
di complicazioni ed arricchimenti dovuti agli apporti variamente determinati dagli altri
idiomi regionali, poté elevarsi al rango di lingua poetica nazionale.
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