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«Giuseppe nome dell’avo paterno, Alessandro del padre di mia madre, Giosuè di un amico di mio padre. Ho da ringraziare Iddio che la matta vanità di farsi romanzeschi fin ne’ nomi non mettesse ne’ parenti miei il bel pensiero di appiccicarmi un qualche nome settentrionale; per esempio, Enrico, Alfredo, Arminio, o che so io. E in vero che questa Italia non contenta di non avere di suo né meno i vizii non vuole avere di suo né meno i nomi de’ figliuoli suoi: tanta e sì stolta e sì infame è la furia di inforiestierarsi. E, nostra vergogna, andiamo a cercare i barbari nomi fra quelle genti a punto di dove ci sono venuti più guai». GIOSUÈ CARDUCCI, Ricordi autobiografici [1853-1858], in ID., Primizie e reliquie: dalle carte inedite, a c. di GIUSEPPE ALBINI e ALBANO SORBELLI, Bologna, Zanichelli 1928, pp. 163-64. «‘Fratelli d’Italia, / L’Italia s’è desta: / Dell’elmo di Scipio / S’è cinta la testa’. Io ero ancora fanciullo ma queste magiche parole, anche senza la musica, mi mettevano i brividi per tutte le ossa; e anche oggi ripetendole mi si inumidiscono gli occhi. Se non che oggi l’età è scettica e positiva; e a più d’uno darà per avventura molestia ‘quell’elmo di Scipio’, mito da panche di scuola. [.] ‘Dall’Alpi a Sicilia / Dovunque è Legnano; / Ogni uom di Ferruccio / Ha il cuore e la mano. / I bimbi d’Italia / Si chiaman Balilla: / Il suon d’ogni squilla / I vespri suonò’. Anche queste ai nostri giorni parranno vanterie inopportune: ma nel ’47 il popolo italiano era nel succhio della sua primavera; e il poeta sentendo in sé l’anima della nazione, fiutava la battaglia nell’aria, come il cavallo di Giob. Oggi i giornali umoristici possono ripetere scherzando, ‘i bimbi d’Italia sono tutti Balilla’; allora ai versi del suo poeta l’Italia assentiva con i fatti; e Palermo, Milano, Messina, Bologna, Brescia, Roma, Venezia si levavano dalla storia raggianti di trionfo, o superbamente affocate e affumicate dalle bombe e dagl’incendi, o divinamente lacere, sanguinose, straziate, affamate, a rispondere: – È vero, è vero». A proposito dell’Inno militare, vv. 14-39: «Fu cotesto il pensiero e il voto, degnamente idealizzato dal poeta, di quella eroica gioventù democratica del ’48 e del ’49, la quale si tolse in mano l’onore e l’avvenire d’Italia e se lo strinse al cuore con tutte le forze, in Roma, in Venezia. Rileggendo cotesti versi, mi ripassano dinnanzi agli occhi gli uomini della legione lombarda e della legione del generale Garibaldi, come gli vidi fanciullo in Livorno, con le lunghe capigliature, con le fantastiche divise, co ’l piglio risoluto tra cruccioso e malinconico; alcuni, giovanetti ancora imberbi; altri, già dai capelli brinati; ardenti negli occhi di un cupo entusiasmo. Di loro si può dire con il poeta: ‘Quel che giurâr l’attennero’». GIOSUÈ CARDUCCI, Goffredo Mameli, «Nuova Antologia», agosto 1872. Si cita da ID., Prose (1859- 1903), Bologna, Zanichelli 1963, pp. 471-73 e 478-79. «Mio padre era un manzoniano fervente: carbonaro del resto, e dei non molti in Toscana che per i fatti del 1831 patirono prigionia e relegazione. E perciò anche, com’era di professione medico, erasi ridotto a vivere in condotta in un de’ più oscuri paesetti della maremma: viveva co i contadini, e, nelle ore di riposo o di sosta, con alcuni pochi libri di storia e letteratura che, oltre i non pochi dell’arte sua, aveva raccolti ed amava. Figuravano tra questi bellissime le opere del Manzoni, con i giudizi di Goethe, le analisi critiche del Fauriel, i commenti del Tommaseo; e quei volumi, rilegati con certa pretensione di lusso, mostravano impressi nelle costole a oro certi fregi che rendean figura come di casette con due alberetti davanti. Io, ragazzo di circa dieci anni, credevo che quella fosse la canonica di Don Abbondio: e leggevo e rileggevo I promessi sposi. Perché fino a quattordici anni non ebbi quasi altro maestro che mio padre, il quale altro non m’insegnava che latino; ma, un po’ per l’indole sua, un po’ per doveri di medico, mi lasciava molta libertà e molto tempo per leggere. E io insieme alle opere del Manzoni lessi l’Iliade, l’Eneide, la Gerusalemme; e la storia romana del Rollin, e la storia della rivoluzione francese del Thiers; i poemi con ineffabile rapimento, le storie con un serio oblio di tutto il resto: e, aiutato da qualche conversazione di mio padre con certi amici ed ospiti, per ragazzo ne intendevo anche troppo. Invasato così di ardore epico e di furore repubblicano e rivoluzionario, io sentivo il bisogno di traboccare il mio idealismo nell’azione; e per ciò in brigata co’ miei fratelli e con altri ragazzi del vicinato organizzavo sempre repubbliche, e repubbliche sempre nuove, ora rette da arconti ora a consoli ora a tribuni, pur che la rivoluzione fosse la condizion normale dell’essere, e cosa di tutti i giorni l’urto tra partiti e la guerra civile. [.] Il quarantotto e il quarantanove non mi lasciarono pensare al Manzoni. L’ode ‘Soffermati su l’arida sponda’ passò come un lampo, annegato nel folgoreggiare di un gran temporale: il cardinal Borromeo scappò per sempre nella carrozza dell’ambasciatrice di Baviera con Pio IX che avea benedetto l’Italia, padre Cristoforo si fece un po’ mondanetto, ma morì bene; morì con Ugo Bassi. In quella vece, Arnaldo da Brescia ebbe ragione, le strofe del Berchet rivissero tutte negli avvenimenti, l’assedio di Firenze divenne un fatto vivo a Venezia ed a Roma. Ahi, ma venne anche la reazione; e mio padre, il manzoniano, perduta la condotta, fu sospinto a Firenze; dove mi allogò a studio dagli Scolopi. E agli Scolopi vidi la venerazione al Manzoni classificata per iscuole: a grammatichina imparavasi a mente ‘Dormi, o fanciul, non piangere’: a grammatica superiore, ‘È risorto, or come a morte’; a umanità, ‘O tementi dell’ira ventura’; a rettorica, ‘Madre dei santi, imagine’. E del Foscolo e del Leopardi che io avea allora a conoscere, non si parlava mai, o quasi mai, o con la bocca stretta e non senza certi epiteti. A me quelle tonache agitantisi per entusiasmo manzoniano richiamavano a mente la Morale cattolica venutami per la prima volta a mano nella prigione paterna insieme con la vita di un santo scritta da un frate. Tutto questo per conchiudere, che io nato di padre manzoniano non sono manzoniano. Avvenne per ribellione mia personale o per ribellione dei tempi nuovi a quell’ideale? Altri vegga». «Gli unitari del ’21 erano pochi: signori, militari, letterati, che per abitudini d’animo e d’ingegno disdegnavano la plebe; quella plebe senza la quale le rivoluzioni non si fanno, e tanto meno le unitarie, e che allora in Italia delle rivoluzioni non aveva né l’idea né la voglia né il bisogno. Chi inoculò la febbre della rivoluzione alla plebe in Italia? chi fece balzare e avventarsi alla mèta dell’unità co ’l furore di una magnanima puledra quella carogna romana di cui Efraimo Lessing diceva che i vermi erano gli italiani odierni? Giuseppe Mazzini. Certo, Giuseppe Mazzini, restando solitario nel concetto determinato dell’unità, ebbe per altro cooperatori efficacissimi; nell’ispirare l’odio allo straniero e il disprezzo ai principi domestici, il Berchet e il Giusti; nell’accomunare il fremito della ribellione e le rimembranze dispettose dell’antica grandezza e libertà, il Guerrazzi; nella guerra alla superstizione e al papato politico, il Niccolini. Ma il Manzoni non può, senza offesa alla storia e alla critica, essere annoverato tra cotali banditori, bersaglieri e zappatori di rivoluzione». «Per alimentare l’odio e l’entusiasmo che fece le Cinque Giornate, ci voleva qualche cosa di men cristiano; qualche cosa come queste strofe: Presto, all’armi! Chi ha un ferro, l’affili; Ma sia in van che il ritorno egli invochi, Ma qui sconti dolor per dolor. E sia il lagno dell’uomo che muor. Versi benedetti: anche oggi ripetendoli, mi bisogna balzare in piedi e ruggirli, come la prima volta che gl’intesi. E gli intesi da una voce di donna, dalla voce di mia madre! Era il lunedì di pasqua del 1847; e un superbo sole di primavera rideva nel cielo turchinissimo, e cinque paranzelle filavano su ’l mare lontano rapide agili e bianche come ninfe antiche, e su i colli tra il folto verde smeraldino delle biade e degli alberi parevano meno annoiate sin le vecchie torri ruinose del medio evo; e da per tutto era un subisso di fiori, fiori nelle piante, fiori tra l’erba, fiori per cielo e per terra, del più bel giallo, del più largo rosso, del più amabile incarnatino. Come son belli i fior di pèschi a primavera! E pure, dopo sentiti cotesti versi, non vidi più nulla; o meglio, vidi tutto nero: avevo una voglia feroce di ammazzare i tedeschi». GIOSUÈ CARDUCCI, A proposito di alcuni giudizi su Alessandro Manzoni, «Voce del Popolo», giugno- luglio 1873. Si cita da ID., Prose., pp. 523-27, 556-59. «Quel tratto della Maremma che va da Cecina a San Vincenzo è il cerchio della mia fanciullezza e della prima adolescenza. Ivi vissi, o, per dir meglio, errai dal 1838 all’aprile del 1849. Mia madre, donna di molto ingegno e di molto carattere, m’insegnò leggere, e mi insegnava a mente le poesie del Berchet: Mi ricordo ancora quando imparavo… ‘Ma Clarina al suo diletto cinse il brando tricolor…’, ‘Ha bianco il vestito, ha il mirto al cimiero’ ecc. [.] Nel ’47, co’ bagliori della primavera del risorgimento, cominciai a far versi anch’io: In morte d’una civetta, ottave, nella quale non ricordo più come entrasse la granduchessa Maria Antonietta – La presa del castello di Bolgheri, fatta da Ladislao di Napoli nel 144… […], racconto, prima in prosa, poi in ottave, poi in terzine – Bruto che uccide Cesare, terzine – Il 10
agosto
, non so più in che metro; probabilmente in tutti quei versi che sapevo fare».
GIOSUÈ CARDUCCI, LEN XI, p. 8.
5)
«Ricordo, come ieri, il giorno, marzo 1849, che a Castagneto, in Maremma pisana, si lesse nei giornali l’arrivo di Giuseppe Mazzini a Roma. Tra le forre dei monti della Gherardesca urlava, come suole di marzo, il vento polveroso e furioso; e si udiva lontano da basso il mugghio spasimante del Tirreno che si contorceva bianco nella maretta. E io mi compiaceva a levare la voce su i venti urlando anch’io fra gli uliveti selvaggi e scoscesi i due versi dell’Arnaldo: Sul castel di Crescenzio all’aure ondeggia; perocché nella mia testa di tredici anni mi ero persuaso, che, fermo in Roma Mazzini, la repubblica sarebbe per essere eterna». GIOSUÈ CARDUCCI, Decennale della morte di Giuseppe Mazzini, uscito sulla «Cronaca bizantina» il 1° marzo 1882. Si cita da ID., OEN XIX, pp. 3-13: 9-10. «Il mio più antico ricordo mi pone subito, ahimè, in relazione con un essere dell’altro sesso, come si direbbe con la lingua d’un certo uso, che, secondo i manzoniani, dovrebbe essere la lingua del buon gusto. Mi trovo in un luogo né bello né brutto – forse un giardinetto presso la casa ove nacqui –, a una giornata, né di primavera né d’inverno, né d’estate né d’autunno. Mi pare che tutto, cielo e terra, sopra, sotto e d’intorno, fosse umido, grigio, basso, ristretto, indeterminato, penoso. Io con una bambina dell’età mia, della quale non so chi sia o chi sia stata, dondolavamo, tenendola per i due capi, una fune; e mi pare che così dicevamo o credevamo di fare i serpente. Quando a un tratto ci si scoperse tra i piedi una bella bòdda: è il nome, nel dialetto della Versilia, d’un che di simile al rospo. Grandi ammirazione ed esclamazioni di noi due creature nuove su quell’antica creatura. Le esclamazioni pare fossero un po’ rumorose. Perché un grave signore, con gran barba nera e con un libro in mano, si fece in su l’uscio a sgridarci, o, meglio, a sgridarmi. Non era mio padre: era, seppi molto tempo dopo, un marito putativo d’una moglie altrui alloggiata per certo caso ivi presso. Io, brandendo la fune, come fosse un flagello, me gli feci incontro gridandogli: Via, via, brutto, te! D’allora in poi, ho risposto sempre così ad ogni autorità che sia venuta ad ammonirmi, con un libro in mano e un sottinteso in corpo, a nome della morale. Ma veramente morale, per bambini, questa storia non è. Che vuole ci faccia io, signora? È storia. E ho ubbidito». GIOSUÈ CARDUCCI, Ricordo d’infanzia [1885], in Ritorniamo piccini!, libro allegato al «Giornale per i bambini» di Roma. Si cita da ID., OEN XXIV, pp. 1-4: 3-4.

Source: http://omero.humnet.unipi.it/matdid/1147/Puerizia%20maremmana.pdf

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