Recensione a Roberto ALESSE, La dirigenza dello Stato tra politica e amministrazione. Prefazione di Augusto Cerri, Giappichelli, Torino, 2006, pp. XX-163.
di Nicola Lupo Nell’arco degli ultimi quindici anni la disciplina della dirigenza pubblica e, più in
generale, del lavoro pubblico è stata oggetto di profonde modifiche e di frequenti ripensamenti da parte del legislatore. La collocazione dei dirigenti, nel difficile confine tra politica e amministrazione, ha infatti evidentemente risentito dei mutamenti intervenuti sia sul piano della politica, con il passaggio a meccanismi di tipo maggioritario-bipolare, sia su quello dell’amministrazione, nell’ottica di una valorizzazione delle esigenza di efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa.
Piuttosto di rado ci si è posti il problema di valutare la compatibilità di tali
modifiche rispetto alla carta costituzionale repubblicana. Tanto la dottrina, quanto la Corte costituzionale hanno infatti frequentemente evidenziato come le scelte sugli assetti dell’amministrazione pubblica, e del suo personale, non furono affrontate con particolare attenzione dall’Assemblea costituente, per essere in larga parte demandate al legislatore ordinario, al quale il testo costituzionale ha proposto contemporaneamente più modelli di amministrazione. Ossia, secondo la celebre tripartizione proposta da Mario Nigro (La pubblica amministrazione fra Costituzione formale e Costituzione materiale, in Studi in memoria di Vittorio Bachelet. II. Amministrazione e garanzie, Giuffrè, Milano, 1987, p. 385 s.): l’amministrazione dipendente dal Governo; l’amministrazione imparziale; l’amministrazione comunitaria-decentrata.
Ciò non vuol dire, però, che la Costituzione repubblicana ammetta qualsivoglia
assetto legislativo dell’amministrazione: è piuttosto chiaro che i princìpi e gli stessi diritti fondamentali che essa proclama e garantisce nella sua prima parte si prestano ad essere meglio realizzati da alcuni assetti amministrativi piuttosto che da altri; ed è pacifico che lo stesso legislatore è comunque tenuto, per questa come e fors’anche ancor più che per altre materie, a rispettare un criterio di coerenza interna e di ragionevolezza, visto che è in larga misura all’attività amministrativa – espletata a livello centrale come a livello locale – che è rimesso, in definitiva, il buon funzionamento dello Stato democratico-sociale (sul tema cfr., tra gli altri, Democrazia e amministrazione. In ricordo di Vittorio Bachelet, a cura di G. Marongiu e G.C. De Martin, Giuffrè, Milano, 1992 e U. Allegretti, Il valore della Costituzione nella cultura amministrativistica, in Diritto pubblico, 2006, p. 751 s.).
Del resto, gli stessi costituenti avevano, in realtà, ben presente il rilievo
costituzionale dell’amministrazione: tant’è che la scelta di dedicare ad essa una disciplina piuttosto scarna ed ambigua sembra doversi attribuire soprattutto alla volontà di non interromperne la continuità rispetto al periodo statutario e alla stessa
esperienza fascista: si tratta di una volontà che emerge piuttosto chiaramente sin dalle due Commissioni Forti, non a caso composte in larga parte da giudici ordinari e amministrativi, evidentemente legati, in forme più o meno strette, con il vecchio regime (G. Focardi-G. Melis, Le fonti culturali: le Commissioni Forti, in Valori e principi del regime repubblicano. 1.I., Sovranità e democrazia, a cura di S. Labriola, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 3 s.), e che venne spesso dissimulata in nome di una pretesa mancata rilevanza costituzionale dell’amministrazione (indicazioni ulteriori, volendo, in V. Antonelli-N. Lupo, La scienza del diritto amministrativo e il diritto costituzionale, in La scienza del diritto amministrativo nella seconda metà del XX secolo, a cura di L. Torchia, E. Chiti, R. Perez, A. Sandulli, Editoriale Scientifica, Napoli, 2008, p. 203 s.).
Non può sorprendere più di tanto, perciò, che la giurisprudenza costituzionale in
materia sia stata a lungo giudicata, per questo profilo, “piatta” e improntata ad una “visione riduttiva e minimale” dell’impatto della Costituzione repubblicana sulle pubbliche amministrazioni (cfr. M.P. Chiti, L’influenza dei valori costituzionali sul diritto processuale amministrativo, in Studi in memoria di Vittorio Bachelet,cit., p. 71 s., spec. p. 76 s. e U. Allegretti, Corte costituzionale e Pubblica Amministrazione, in Corte costituzionale e sviluppo della forma di governo in Italia, a cura di P. Barile, E. Cheli, e S. Grassi, Il mulino, Bologna, 1982, p. 269 s.). Solo di recente – a parte una fase piuttosto significativa negli anni ’60, essenzialmente legata all’esperienza di Aldo Sandulli quale giudice costituzionale (cfr. A. Sandulli, Corte costituzionale e scienza del diritto amministrativo, in Diritto amministrativo e Corte costituzionale, a cura di G. della Cananea e M. Dugato, ESI, Napoli, 2006, p. 597 s., spec. p. 611 s.) – essa è parsa più attenta e più incisiva riguardo ai problemi del diritto amministrativo.
La maggiore attenzione alle questioni amministrativistiche mostrata, negli anni più
recenti, dalla Corte costituzionale si può ricavare, tra l’altro: in primo luogo, dalla sentenza n. 303 del 2003, in grado di “capovolgere” il tradizionale criterio del parallelismo tra funzioni legislative e funzioni amministrative regionali, mediante l’invocazione del criterio di sussidiarietà, che il costituente ha previsto esclusivamente per il riparto delle funzioni amministrative, anche per il riparto delle funzioni legislative (ove le leggi siano volte a disciplinare lo svolgimento dell’attività amministrativa); in secondo luogo, dalla sentenza n. 204 del 2004, sul riparto della giurisdizione tra giustizia ordinaria e amministrativa, a tal punto determinante sugli assetti della scienza amministrativistica da essere in grado – come efficacemente si è rilevato (L. Torchia, Biblioteche al macero e biblioteche risorte: il diritto amministrativo nella sentenza n. 204/2004 della Corte costituzionale, in www.giustizia-amministrativa.it, e da M. Clarich, La “tribunalizzazione” del giudice amministrativo evitata, in Giornale di diritto amministrativo, 2004, p. 969 s.) – di far “crollare” e “risorgere” intere biblioteche di studi amministrativistici e processualistici; in terzo ed ultimo luogo, ancor più di recente, dalle sentenze n. 103 e n. 104 del 2007, sul c.d. spoils system, nelle quali la Corte, superando un atteggiamento più “prudente” seguito in precedenza, ha dichiarato il contrasto con gli
artt. 97 e 98 Cost. dei meccanismi di cessazione automatica, ex lege e generalizzata degli incarichi dirigenziali di livello generale e dei direttori generali delle ASL previsti – rispettivamente – dalla legislazione statale e da quella regionale.
Le critiche allo spoils system fatte proprie dalla Corte costituzionale nelle sentenze
n. 103 e n. 104 del 2007 erano state anticipate da una parte significativa della dottrina, in nome dei principi di imparzialità e di buon andamento dell’amministrazione, sanciti dall’art. 97 Cost. Il volume di Roberto Alesse, La dirigenza dello Stato tra politica e amministrazione (Giappichelli, Torino, 2006), uscito pochi mesi prima delle due sentenze in questione, si colloca appunto nell’ambito di questo orientamento dottrinale. In coerenza con il curriculum dell’autore (dirigente pubblico e, al tempo stesso, cultore del diritto costituzionale), in esso si esamina un momento essenziale della dimensione amministrativa, quale è quello della dirigenza pubblica, ma con l’occhio costantemente rivolto a valutarne i profili costituzionalistici.
Sulla base di queste premesse, il volume di Alesse si apre con una ricostruzione
del quadro costituzionale, che prende in specifica considerazione gli artt. 5, 97 e 98 Cost. e, con essi, la questione, giustamente definita difficile, della separazione fra politica e amministrazione. L’Autore ripercorre poi, nei capitoli I e II, la legislazione relativa al pubblico impiego, sia prima che dopo la c.d. “privatizzazione”, avvenuta con il decreto legislativo n. 29 del 1993; passa quindi ad esaminare criticamente la disciplina contenuta in tale decreto legislativo e le rilevanti modifiche ad essa apportate ad opera del decreto legislativo n. 80 del 1998 (con cui si realizza la “seconda fase” della privatizzazione del rapporto di pubblico impiego, tra l’altro assoggettandosi anche i dirigenti generali dello Stato al regime privatistico).
Il capitolo III è dedicato alle modifiche intervenute successivamente, ossia
soprattutto agli effetti discendenti dall’entrata in vigore del nuovo Titolo V della Costituzione e alla legge n. 145 del 2002; in particolare, quest’ultima, all’inizio della XIV legislatura, ha apportato numerose innovazioni alla disciplina previgente (nel frattempo inglobata dal decreto legislativo n. 165 del 2001), tra cui la soppressione del ruolo unico dei dirigenti, una revisione delle modalità di conferimento degli incarichi dirigenziali (ampliando, appunto, il cosiddetto spoils system) e l’istituzione della vicedirigenza (su cui la valutazione dell’autore risulta piuttosto critica).
L’ultimo capitolo, oltre ad un commento al decreto-legge n. 181 del 2006, che ha
ritoccato, all’inizio della XV legislatura, la disciplina in questione, e ad alcuni sommari cenni di diritto comparato, contiene la parte maggiormente valutativa del volume. In questa, l’Autore sottopone a critica serrata la disciplina del conferimento degli incarichi dirigenziali, in nome del principio di imparzialità, ritenuto evidentemente incompatibile con il riconoscimento di un rapporto di tipo fiduciario tra politico e dirigente pubblico. Dichiara poi la propria contrarietà all’inserimento nelle strutture amministrative, in posizione dirigenziale, di soggetti estranei alla pubblica amministrazione, come è consentito dalla legislazione entrata in vigore nell’ultimo decennio. Delinea, infine, la strada della “ripubblicizzazione” del lavoro
pubblico, dirigenziale e non, come unica alternativa, giudicata preferibile dall’Autore, rispetto all’attuale quadro normativo.
Come rileva, nella sua bella prefazione al volume, il professor Augusto Cerri, la
disciplina della dirigenza pubblica ha rappresentato “il rovello del legislatore fin dalla conseguita unità d’Italia”. Ebbene, anche negli ultimi dieci-quindici anni il legislatore pare essersi arrovellato non poco in proposito, alla ricerca di una disciplina della dirigenza più conforme ai nuovi caratteri assunti dall’amministrazione pubblica e dalla stessa forma di governo. Il lavoro di Roberto Alesse sembra mostrare che, oggi, la questione è ancora ben lontana dall’essere stata risolta in modo soddisfacente e, al contempo, aiuta a comprendere, in linea con la giurisprudenza costituzionale prima richiamata, come mai essa sia da considerarsi una questione tutt’altro che irrilevante per il diritto costituzionale.
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