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0323 Mente e Cura 2_2011:- 3-09-2012 16:57 Pagina 5 Interviste/Interviews
Massimo Biondi
Ordinario di Psichiatria, Direttore del Dipartimento di Scienze Psichiatriche
e Medicina Psicologica della Sapienza - Università di Roma

In che modo la psichiatria attuale considera la relazione mente-corpo?Finalmente, forse dopo molti decenni, la psichiatria cerca di integrare i due con- cetti e porli a ponte, perché tutta la psicopatologia – splendida – è stata per un se-colo e più, forse anche due, tutta quanta ‘psi’, o solo ‘psi’: cioè parlava in un modomolto approfondito, dal vissuto a tutto il mondo dei sintomi e dei segni e delle sin-dromi, di cose che erano incorporee, laddove il corpo entrava – come dire – a vol-te poco, a fatica ed era più che altro visto come qualcosa dove la mente ‘abitava den-tro’. Basta pensare al corpo dello schizofrenico – o del depresso – che era studiatosolo come espressione di sintomi utili alla diagnosi. Prendendo ad esempio quel-lo della depressione, attualmente le visioni più recenti che si stanno piano pianoaffermando, sono di un disturbo che non è mentale: è un alterato assetto somati-co – la depressione – e molti dei sintomi fisici della depressione oggi sono reinterpretaticome sintomi espressione di una comune alterazione, centrale, che dà segni di séa livello mentale e corporeo. Se uno dice: non è la serotonina ma è la corporeitànel suo insieme che è coinvolta – a partire dalla serotonina – ma c’è un disturbo,ad esempio un’alterazione dei recettori glicocorticoidi centrali che pilotano l’alte-razione dell’umore, del bioritmo, del dolore e delle manifestazioni neuroimmuni,si comincia a capire come tutto ciò sia non mentale o corporeo, ma un tutt’uno.
In sintesi, si comincia a capire che mente e corpo sono due modi di raccontare larealtà, che noi usiamo con il linguaggio, utili, però – come dire – sbagliati, cioè par-ziali … però continuiamo ad usarli perché al momento non abbiamo altri descrittori.
In questa chiave qui, ricordo che lei ha definito un giorno, in un convegno che la de- pressione è una malattia psicosomatica … È un vecchio termine che andrebbe rispolverato … psicosomatica intesa proprio nel pieno della sua serie di sofferenze sia psichiche che fisiche. Il paziente depressole ha tutte due insieme e la ragione unitaria è in questa radice.
0323 Mente e Cura 2_2011:- 3-09-2012 16:57 Pagina 6 In passato il terreno di elezione della relazione mente-corpo era considerato la psico- somatica. Non crede che nel momento attuale questo ambito sia troppo angusto? Sì, nel senso che è giusto porsi il problema in questi termini, perché la vecchia idea era che da una parte c’erano le malattie fisiche, quelle del soma, e uno studia-va il vetrino, e dall’altra c’erano quelle della psiche, che erano, diciamo, dell’anima;in mezzo c’erano, forse, le possibilità che stati psichici influenzassero il soma, ed erala psicosomatica. Non è sbagliato. Però, a ben vedere, se uno fa un passo indietro eguarda le cose da lontano, si accorge che sono un tutt’uno: cioè che la depressione– ho fatto l’esempio della depressione, ma anche dell’ansia – sono disturbi di tipopsicosomatico. Ansia è un termine che deriva da ‘angere’ (stringere) e l’ansia comeprima esperienza è somatica. È un senso di pena, con tremore, tensione, con tantisintomi fisici; e questo senso di costrizione, con sentimento di paura, vanno insie-me: separarli è artificioso. Per la depressione il discorso è simile. Ma anche se unoparla di disturbi classici come la schizofrenia, dove uno dice “beh, è il mondo deldelirio, è il mondo dell’autismo, ecc.” in realtà c’è anche il corpo che partecipa. Ilconcetto di depressione come malattia psicosomatica o di schizofrenia e corporei-tà, da me ad esempio, trovano una familiarità profonda con quanto ho imparato daGiancarlo Reda e poi da Paolo Pancheri. Tanti anni fa io facevo uno studio sugli ‘au-tistici’, come li chiamava Reda – alla Minkowski – indagando la reattività neuro-vegetativa, il battito cardiaco, l’attività elettrodermica e vedemmo che nel più auti-stico, anche addirittura persone in blocco psicomotorio, c’era dentro una tempesta:la tempesta di parametri biochimici. Le persone mostravano sintomi, che dopo sisarebbero chiamati negativi, ma erano tutt’altro che negativi! Nel normale autisti-co la frequenza cardiaca, quando io mi avvicinavo, andava a 90 o 100 battiti al mi-nuto e rimaneva così per un’ora intera finché stavamo in laboratorio. Nel normalestudente andava a 90 quando io arrivavo, ma dopo 10 minuti era scesa a 70 (cioèmancava l’abituazione). Quindi il corpo partecipava: altre volte era la microsudo-razione delle mani che si vedeva, altre volte poteva essere, studiandolo con un elet-troencefalogramma, lo spettro d’onde di alta frequenza sui 20 Hertz, e così via …Se uno ragiona in termini di polimorfismo genetico, una psicosi non viene ‘così’,viene su un terreno che è nato da come sono stati assemblati i circuiti, le sequenzeneurotrasmettitoriali, da nuclei che si attivano in modo inappropriato in risposta astimoli ambientali. Quindi, ad esempio, anche una visione psicosomatica della psi-cosi è molto utile. Il concetto di stress in questo senso è un concetto portante chespiega come dallo psichico si passa al somatico, dovunque: per l’ulcera, anche perle patologie depressive e, perché no, anche per le psicosi.
Non pensa che la celebre dizione “misterioso salto dalla mente al corpo” meriti alla luce delle conoscenze attuali di essere ribaltata in “evidente salto dal corpo alla mente”? I meccanismi sono gli stessi: l’esempio più pratico è quello della neuro-immu- no-modulazione. Ad esempio, dopo un lutto, con evento psicologico centrale, spe- 0323 Mente e Cura 2_2011:- 3-09-2012 16:57 Pagina 7 cialmente se questo non può essere elaborato a livello psicologico, si creano delle al-terazioni somatiche, in particolare un’abnorme elevazione di cortisolo, un disturbodei circuiti neuro-immuno-infiammatori; le persone tendono ad ammalarsi di piùfisicamente, oltre ad essere abbattute da un punto di vista psichico, con la depres-sione clinica, e ci sono tutti i sintomi della vecchia depressione vitale.
C’è un alterato assetto di regolazione cardiaca, ad esempio c’è un aumentato ri- schio di aritmie, ci sono un aumento della PCR, un aumento dell’aggregabilità pia-strinica, spesso un’alterata risposta al test al desametasone, che indica un alterato fun-zionamento ipotalamo-ipofisi-cortico-surrenale; ci sono malattie dermatologiche chevengono fuori con più facilità, un’aumentata morbilità per malattie infettive, che èconnessa ad alterazioni di funzionamento del sistema immunitario, in un panora-ma psicologico, psichico e corporeo a tutto campo. Ci sono le citochine pro-in-fiammatorie che nella depressione sono più attive e la normale bilancia tra pro-in-fiammatorio e anti-infiammatorio è sregolata.
E qui veniamo al discorso mente-corpo, corpo-mente. Quello stesso meccani- smo, che dicevo all’inizio (è lo stesso meccanismo), è in campo, ad esempio, in al-cune patologie come l’influenza, o nelle malattie infettive. Nei prodromi è tipico chesi ha un aumento delle citochine infiammatorie che danno dei sintomi che non sonodepressivi, sono semi-depressivi: la stanchezza, la fatica, il sonno che non riposa, ladifficoltà di concentrazione, l’astenia, sono prodotti dalla citochina pro-infiamma-toria, che è alta, così come è alta nel a depressione. A questo punto l’anel o si ricongiungee uno vede che il sistema neuro-immuno-infiammatorio agisce dalla mente sul cor-po, come mediatore quando c’è l’evento stressante e critico molto importante e per-durante; agisce dal corpo alla mente quando invece l’agente è magari un agente pa-togeno e non lo stress. La piattaforma su cui si gioca, il palcoscenico, è sempre lastessa: i mediatori sono sempre loro, i motori sono diversi.
Quindi come si potrebbe leggere la genesi dei disturbi mentali alla luce della relazione Qui applicherei il modello dello stress, in cui, se c’è un evento (io ho fatto l’esem- pio del lutto, prima) il primum movens è sicuramente psicologico, nel senso che, seuna persona può riparare la perdita – e questo deriva dal significato che ha l’ogget-to perduto, l’evento, da come la persona ha vissuto in passato le perdite, dal con-cetto secondo me, non tanto e solo di conflitto riguardo l’oggetto perduto, ma so-prattutto dalla percezione di riparabilità che uno avverte – il lutto entro un certo tem-po, che può essere, a seconda della gravità oggettiva dell’evento, di una settimana odi alcuni mesi, si ripara. Secondo me il processo di riparazione del lutto è legato aduna restituzione, alla normalizzazione funzionale. Mi spiego meglio: sotto stress acu-to gli studi di Bowlby, ad esempio – ma ancor prima quelli di altri che lavoravanosulle scimmie – hanno mostrato che, ad esempio, dopo la separazione c’è un com-portamento con grida, agitazione e così via, che dura due o tre giorni nel piccolo 0323 Mente e Cura 2_2011:- 3-09-2012 16:57 Pagina 8 separato; questo è legato ad un’iperattivazione della dopamina, della noradrenalinae anche della serotonina, che può durare, con i circuiti in allarme, uno, due, tre gior-ni. Proprio secondo il vecchio modello di Selye di stress. Dopo subentra una fase diesaurimento, di sfibramento perché è stato speso tutto quello che poteva essere spe-so. Si vede da un punto di vista di comportamento che l’animale si chiude, si riti-ra e ha comportamenti passivi. Dal punto di vista neurochimico si vede che sonoesaurite le riserve di neurotrasmettitori. In quel caso si entra nella condizione di lut-to e il momento in cui, piano piano si attua una riparazione, molto probabilmen-te questa, come pure l’altra, ha come correlato neurochimico, un ripristino della fun-zionalità dei circuiti serotoninergici, dopaminergici e noradrenergici: processo chesi instaura nel giro di qualche settimana. Questo di cui io sto parlando lo fa nor-malmente la vita. È la vita che lo fa: la vita è fatta di attaccamenti e di perdite, e hauna sua psicobiologia. Noi non possiamo andare – né lo psicoterapeuta lo può fare– a studiare i neurotrasmettitori del nostro paziente, però quello che gli sta succe-dendo dentro è molto probabilmente questo. Quando uno dopo il pensionamen-to trova un nuovo lavoro o una nuova attività, quando dopo una separazione affet-tiva importante si trova un nuovo legame affettivo, quello che succede in determi-nati circuiti del cervello è sicuramente questo. Con tutti gli effetti ‘a caduta’ sul-l’organismo. E allora certamente, il senso di appartenenza, il senso di fare qualcosache ha senso, un nuovo amore, modificano e migliorano anche le attività viscerali.
Questa è psicosomatica … profonda; e noi dovremmo cercare di curare utilizzan-do tutti questi strumenti. In questo senso io spesso dissi, fin dal 1995, che gli in-terventi psicoterapici e la farmacoterapia lavorano con metodi diversi ma sullo stes-so tipo di matrice comune; alla fine lavorano sullo stesso terreno finale che è quel-lo dei circuiti neurotrasmettitoriali: sia attraverso ciò che fai fare al paziente – i com-portamenti che faciliti in lui – sia i cambiamenti della sua vita che lui produce, siaattraverso medicinali che ricostituiscono, ricaricano di queste sostanze.
È d’accordo con le evidenze cliniche che individuano in ansia, depressione e deper- sonalizzazione le principali manifestazioni sindromiche presenti nei disturbi mentali? Sì, – a parte la depersonalizzazione, che forse è un po’ particolare – ma ansia, ap- prensione, paura, tristezza, potremmo anche aggiungere aggressività e rabbia, sonopresenti dovunque. Se uno esce dalla concezione ‘utile’, per ragioni epidemiologi-che delle categorie diagnostiche, ed entra in quella, diciamo, di un continuum tranorma e patologia, dove ragioniamo per dimensioni psicopatologiche, allora uno tro-va, giustamente, che la tensione, la paura, l’ansia sono presenti in tutte le sindromipsichiatriche, in misura maggiore o minore. Un tempo si parlava di ansia nevroti-ca o ansia psicotica, sia per parlare dell’intensità, sia delle motivazioni o del tipo divissuto. Adesso non se ne parla più, ma esistono ancora: esiste l’ansia nevrotica, esi-ste l’ansia psicotica. Esistono diverse forme di tristezza, esistono diverse forme di rab-bia: sono tutte presenti e dovunque.
0323 Mente e Cura 2_2011:- 3-09-2012 16:57 Pagina 9 L’impiego e l’adozione di un sistema nosografico come è stato quello del DSM III e IV – utilissimo sotto certi settori – ha però fatto disimparare, se posso usare laparola, alcuni punti principali: cioè l’idea, per esempio, che uno insegna anche chel’ansia sta nei disturbi d’ansia, la tristezza nei disturbi depressivi, il delirio nei vis-suti psicotici … non è proprio corretto, perché l’ansia è presente in tutti i disturbi.
Noi abbiamo fatto uno studio, una volta, su 1200 casi – con Massimo Pasquini, diambulatorio – e abbiamo visto che l’ansia è presente in tutti, cioè nel soggetto pa-ranoide, nella schizofrenia, nel panico, nell’ossessione, nella depressione, nel disturbobipolare, nei disturbi del comportamento; e lo stesso c’è per la tristezza, c’è per lademoralizzazione, per la rabbia o per l’aggressività, chi più chi meno. Certo in al-cune categorie sono più espresse, però sono presenti dovunque. E questo è curioso,perché poi alla fine ha portato alla creazione di false comorbilità. La depressione dasempre ha dentro una quota d’ansia, i disturbi d’ansia da sempre hanno dentro del-le quote di demoralizzazione, di depressione: minori, indubbiamente, però impor-tanti. E a volte hanno bisogno di essere riconosciute e trattate. Quindi propriamentenon sono comorbilità. Comorbilità dovrebbe essere un termine riservato a quelle con-dizioni in cui uno ha la bronchite e una gamba rotta, cioè sono due cose radicalmentediverse, su piani completamente differenti.
In questo caso, è arduo dirlo questo, sono realmente molto vicine. Il vecchio con- cetto di nevrosi o sindrome ansioso-depressiva mi va molto bene, così come il di-sturbo bipolare, la vecchia psicosi maniaco-depressiva … ci possono essere sicura-mente l’ansia, la depressione e la rabbia e l’aggressività, distorsioni di realtà fino aldelirio. Quindi ragionare in questa chiave, probabilmente, aiuta parecchio.
In che modo il clinico può essere interessato al fatto che ansia, depressione e deperso- nalizzazione, ma anche la rabbia, sono anche risposte adattative a situazioni ambien-tali? Beh, per studiare quali possono essere le loro radici. E qui la vecchia psicopato- logia sicuramente è utile, perché ci possono essere delle modificazioni un tempo chia-mate psico-organiche, cioè fattori fisici che determinano queste cose: una tiroide iper-funzionante o ipofunzionante, una sostanza o una droga possono dare ansia o de-pressione o disturbi della coscienza e così via. Però questi stessi meccanismi posso-no essere attivati, diciamo modificati, anche da avvenimenti. I meccanismi sono glistessi, il meccanismo d’innesto è diverso. Come se uno avesse, diciamo, un orolo-gio che ha meccanismi che si possono guastare da soli, oppure possono essere influenzatida una botta, oppure c’è una mano che li sregola … e regola le lancette, un po’ unconcetto così. Le risposte adattative significano che l’ansia o la depressione, in que-sto caso, dovrebbero aiutare ad adattarsi, ed entro certi limiti, anzi, la depressioneaiuta ad adattarsi; l’ansia attiva la mente e tutto il fisico per rispondere meglio; ladepressione può attivare dei comportamenti sia di protezione dall’esposizione a si-tuazioni ambientali quando uno potrebbe poi soccombere, sia lancia segnali di ri- 0323 Mente e Cura 2_2011:- 3-09-2012 16:57 Pagina 10 chiamo e di aiuto al gruppo, quindi potrebbe promuovere comportamenti protet-tivi o affiliativi. Sui disturbi di coscienza ne saprei forse di meno, però possono es-sere adattativi perché, ad esempio, in situazioni di minaccia importante, dissociarepuò aiutare a mettersi al riparo, a ridurre l’angoscia che sarebbe … Accade anche nel mondo animale con il ‘freezing’Esatto. Quindi questi ci fanno capire come alcuni sintomi, organizzabili in sin- dromi, possono avere una loro funzione adattativa. Certo, nel momento in cui di-ventano troppo intensi e sindromi, la funzione adattativa viene meno e viene soverchiatainvece dal danno che producono all’organismo in senso globale.
E prendendo atto, come lei ci insegna, della natura stress-dipendente della maggior parte delle malattie mentali e non, in che modo il lavoro di mentalizzazione indotto dal-la psicoterapia può, a suo avviso, migliorare l’integrazione mente-corpo? Citando un antenato importante “là dove c’è l’Es ci sarà l’Ego”, come diceva Freud.
Vale a dire che, se esistono delle forze, ad esempio inconsce, ma non solo, sono an-che forze esterne importanti, che premono sull’organizzazione psichica, generano sin-tomi – gli sforzi adattativi che non riescono a trovare una soluzione adattativa – beh,il lavoro, sul piano simbolico, il lavoro di mentalizzazione, con la psicoterapia chesi focalizza su questo, può aiutare, da una parte, a risolvere internamente, attraver-so un’elaborazione sul piano astratto, situazioni di conflitto e di difficoltà, anche inrapporto ad eventi esterni; dall’altra può aiutare a facilitare, a mettere in moto cam-biamenti nella vita personale – la psicoterapia – che possono aiutare a risolvere si-tuazioni difficili che generano lo stress, quindi modificazioni neurochimiche, quin-di sintomi e sindromi. In altri termini sono due piani di lavoro: uno di lavorazio-ne interna e uno di quello che uno ‘fa’ con questa lavorazione interna. Potremmodire che aiuta, su un piano la mentalizzazione di conoscenza aumentata e su un al-tro piano di cambiamento che viene prodotto nelle vite che uno vive. Conoscenzae cambiamento. Quindi in due livelli, direi, che si ribaltano sicuramente sull’inte-grazione mente-corpo.
Può ancora esistere, secondo lei, una psicoterapia che si sottragga all’integrazione tra conoscenze psicologiche e psicobiologica? No! Io ormai è da più di vent’anni che sono fortemente convinto che la psico- terapia sia la terapia più biologica che c’è. E l’idea è che il farmaco agisca, come dire,a pioggia: se uno prende un medicinale che inibisce la ricaptazione della serotoni-na e lavora sul trasportatore, aumenta il livello di serotonina un po’ in tutti i distretti,anche periferici, anche ad esempio a livello gastrointestinale … e va benissimo! Perfortuna che ci sono e meno male perché spesso sono di estrema utilità. Però, que-sti livelli alterati di serotonina, lo sono in sedi diverse a livello cerebrale: nell’ansio-so, nell’ossessivo, nel depresso, nella persona impulsiva e quindi, probabilmente quan- 0323 Mente e Cura 2_2011:- 3-09-2012 16:57 Pagina 11 do uno prende un medicinale antidepressivo, cosiddetto – in realtà è sbagliato il ter-mine: non è un antidepressivo, è un ricaricatore di serotonina – fa una sorta di au-mentata disponibilità di serotonina in quelle sedi dove ce n’è bisogno. La strada èche uno potrebbe lavorare sui circuiti, dove c’è una serotonina disfunzionale, o unadopamina disfunzionale, anche attraverso altri interventi. E questi interventi pos-sono essere attraverso l’esecuzione di comportamenti, la produzione di pensieri, ecertamente quello che chiamavamo prima, di mentalizzazione, cioè trovare anchedelle nuove modalità di affrontare i conflitti, elaborare strategie, aggiungerei anchesognare, ad esempio, vedere film, (comici e non), leggere, parlare con gli altri, vi-vere relazioni, e così via. Tutto questo produce modificazioni nella chimica della men-te, come mi piace chiamarla, indotte da variabili psicologiche, da fattori psicologi-ci. Qui ci riconduciamo al tema iniziale di fondo di una visione globale mente-cor-po e di una psicoterapia che produce delle modificazioni biologiche. Certamente nonè automatico perché non è detto che tutte le psicoterapie lo facciano. Direi che cer-te condizioni psicoterapiche, legate ad una buona relazione di attaccamento, lega-te ad una buona motivazione della persona per questo tipo di attività, lo possonofare. Lo si vede di più in alcune terapie come quelle cognitivo-comportamentali dovec’è un’azione, diciamo, motoria, neuromotoria più ben identificabile. Però c’è si-curamente anche in interventi, come quello psicodinamico, – anche quello psico-dinamico integrato a maggior ragione – perché questi producono sicuramente del-le modificazioni fisiche. Io un poco lo vidi, per esempio, con la terapia del rilassa-mento e con alcuni interventi psicoterapici, dove ci sono delle modificazioni del cor-tisolo, della prolattina, della tensione muscolare, della frequenza cardiaca che sonoprodotte perché sono a valle di modificazioni centrali indotte dalla tecnica psico-logica.
Potendo implementare l’attuale formazione dello psichiatra, quale spazio concede- rebbe all’integrazione di conoscenze di psicologia scientifica e psicobiologia? Uno spazio largo. Largo perché non si può più fare lo psichiatra citando solo Bleu- ler o Kraepelin e tanto meno il DSM-III. È fondamentale che entrino dentro co-noscenza di psicologia scientifica, biologia del cervello, ma più esattamente direi dichimica della mente. E mi allargherei anche a conoscenze di antropologia, cioè del-la società umana, di una visione di come noi in quanto gruppi siamo legati tra dinoi. Quindi credo che debbano entrare queste conoscenze nella formazione, che deverimanere quella storica tradizionale, ma va arricchita in modo sicuramente attentoed equilibrato, con nuovi apporti. Anche per star dietro a come stanno cambiandole richieste che vengono fatte allo psichiatra. Abbiamo una trasformazione in cor-so dei bisogni, che non è soltanto di tecnica. Se uno guarda le malattie che c’eranoin un trattato del 1800 o all’inizio del 1900 e quello che c’è oggi, vede che c’è unmondo cambiato. Alcune sono malattie sempre presenti: il bipolare, la demenza, l’an-sia, ecc., ma ce ne sono tante che una volta non c’erano, che in un vecchio trattato 0323 Mente e Cura 2_2011:- 3-09-2012 16:57 Pagina 12 non troviamo. Noi dobbiamo essere attrezzati per poter capire questa sofferenza, com-prenderne le radici e poterci intervenire, con modelli a tutto campo. Poi, certo, sifa quello che si può.
Quali sono, secondo lei, i progressi più importanti degli ultimi tempi in campo psi- cobiologico di cui la psicoterapia dovrebbe tenere conto? Ma il primo è che le parole muovono emozioni, in realtà muovono molecole. Que- sta prima convinzione potrebbe essere fondamentale. La seconda è che utilizzare dipiù il cambiamento, uscendo dalla trappola di terapie che esplorano e scavano, sca-vano e esplorano, è fondamentale. Questo può significare di introdurre più di unadimensione del reale, una dimensione corporea – certo nei limiti di quello che puòessere necessario – fino addirittura ad usare anche delle risorse che possono sembrarepoco ortodosse, ma che sono fondate. Vale a dire, dove c’è un’evidenza di efficacia,ad esempio, perché non riconoscere che fare attività aerobica migliora l’ossigenazionecerebrale e, per esempio, anche a livello della corteccia frontale migliora la funzio-nalità, quindi può contribuire ad un certo effetto tonico antidepressivo? Perché nonriconoscere che un’alimentazione antiossidante – lo dice la maggior parte delle ri-viste – non soltanto protegge dal decadimento, dal rischio di demenza, ma può aiu-tare anche a livello di disturbi che incontriamo comunemente, come certe forme de-pressive? Giusto poco fa è stato pubblicato sul Journal of Clinical Oncology uno stu-dio che dimostra che mangiare pesce tre volte a settimana, in donne con cancro e“guarite” (tra virgolette) riduce le citochine pro-infiammatorie e migliora l’umore,toglie il senso di stanchezza. Allora perché non usare queste conoscenze per curare?Io ho fatto un esempio forte: donne con cancro con una forma di depressione e stan-chezza. Non usiamo solo gli antidepressivi, non usiamo soltanto terapie di suppor-to o terapie mirate di tipo psicodinamico o comportamentale, usiamo anche que-ste risorse qui, che hanno evidenza di efficacia. Dobbiamo ragionare in modo scien-tifico, come lei ha detto prima: ‘conoscenze di psicologia e psicobiologia scientifi-ca’. Significa studiare, significa acquisire conoscenze, significa dire ‘no’ ai fiori di Bach,‘no’ a quello che è inefficace, ‘no’ ai flaconcini di acqua trasparente; dire ‘sì’ alla die-ta di pesce, ‘sì’ alle vitamine, ‘sì’ a quello che ha evidenza di efficacia, ‘sì’ ai medici-nali, ‘sì’ ai cambiamenti di comportamento, ‘sì’ alle attività di gruppo o individua-li che migliorano la funzionalità dei neurotrasmettitori, documentata; aprirsi, an-che come psichiatri, ad una visione delle cure, che non è eterodossa: è basata sulleconoscenze di psicobiologia più recenti.
0323 Mente e Cura 2_2011:- 3-09-2012 16:57 Pagina 13 Interviste/Interviews
Massimo Cuzzolaro
Docente di Psichiatria e Psicologia Clinica presso l’Università di Roma Sapienza
In passato, il terreno d’elezione della relazione mente-corpo era considerato la psico- somatica. Non crede che al momento attuale questo ambito sia troppo angusto? Credo che sarebbe sbagliato oltre che angusto se si continuasse a credere – come si è sostenuto per un certo periodo – nell’esistenza di alcune, specifiche, malattie psi-cosomatiche: l’asma bronchiale, ad esempio, o la rettocolite ulcerosa. Questa im-postazione presupponeva, senza basi scientifiche, una tripartizione generale delle ma-lattie da distinguere in psichiche, somatiche e psicosomatiche.
E il problema non sarebbe diverso se pensassimo – come pure si è fatto in passato – di applicare la definizione di psicosomatici ad alcuni malati ma nonad altri.
L’attributo psicosomatico conserva invece una sua validità se indica un metodo, tanto di ricerca quanto clinico, diretto a tener conto, nel modo più coerente possi-bile, tanto di dati e conoscenze di ordine biologico quanto di dati e conoscenze diordine psicologico e, aggiungo, di ordine socioculturale o, forse meglio, ecologico,di contesto.
In quest’ultima prospettiva, ogni malattia o, più precisamente, ogni malato, esi- La parola composta la dobbiamo alle lacune delle nostre conoscenze e, quindi, dei nostri sistemi teorici che non ci consentono ancora di usarne una semplice. Comesottolineava Winnicott quasi mezzo secolo fa, nella parola inglese psycho-somatic,l’hyphen, il trattino, riassume il problema: unisce e separa le due componenti essenzialidi ogni pratica di cura dell’essere umano. Scia dell’antico dualismo mente-corpo, la divisione fra humanities e natural scien- ces è ancora, semplicemente, inevitabile. Nei territori della ricerca scientifica, que-sta divisione ci spinge a indagare i possibili substrati biologici dei fenomeni psico-sociali. Nella pratica clinica, invece, ci obbliga alla difficile impresa di tenere insie-me, col miglior eclettismo possibile, contributi utili di una parte e dell’altra. Un esem-pio evidente che si presenta ogni giorno è l’integrazione di trattamenti farmacolo-gici e psicoterapeutici.
0323 Mente e Cura 2_2011:- 3-09-2012 16:57 Pagina 14 Psicofarmaci e psicoterapie: è in gioco la questione dell’integrazione di un doppio re- gistro terapeutico. È un’impresa possibile, in particolare rispetto al modello psicanaliti-co di cura? Come è noto, a partire dalla seconda metà del Novecento, la farmacologia ha fat- to grandi progressi. In particolare, i farmaci attivi sul sistema nervoso centrale e sul-le funzioni psichiche hanno conosciuto un incessante sviluppo.
Pensando solo all’ultimo quarto di secolo, nel 1987 fu dimostrata l’attività an- tidepressiva della fluoxetina, commercializzata poi nel 1988. La fluoxetina è un ini-bitore specifico della ricaptazione della serotonina e ha inaugurato un’importantefamiglia di nuovi psicofarmaci (SSRI, serotonin-specific reuptake inhibitors) utili neidisturbi dell’umore, in quelli ossessivo-compulsivi ecc.
Nel 1994 è stato messo in commercio il risperidone e, qualche anno dopo, l’olan- zapina. Queste molecole hanno un profilo farmacologico simile alla clozapina, com-parsa qualche anno prima, ma sono più maneggevoli. Fanno parte della classe deinuovi antipsicotici atipici SDA (serotonin-dopamine antagonists) che hanno scarsi ef-fetti extrapiramidali e sono efficaci sui sintomi sia positivi che negativi della schi-zofrenia.
Tuttavia, a dispetto dei progressi di efficacia e sicurezza, l’integrazione tra psicoterapie e psicofarmaci non è ancora né scontata né semplice.
Pensando alla psicanalisi, per oltre cinquant’anni, Sigmund Freud e le prime ge- nerazioni di psicanalisti si cimentarono con le malattie mentali senza l’alternativa ol’aiuto di terapie farmacologiche efficaci. Ma la complessità dei rapporti fra psicana-lisi e psicofarmaci non è dovuta solo alla distanza di tempo tra le due invenzioni.
Sotto certi aspetti, la controversia si avviò ancora prima della scoperta della clo- ropromazina: penso ai primi esperimenti terapeutici di Freud con la cocaina o al suofamoso sogno dell’iniezione a Irma.
E ancora oggi non bastano le tecniche di neuroimaging e gli studi neurofisiolo- gici sugli effetti biologici delle psicoterapie per conciliare in una sintesi teorica con-vincente i due interventi, al di là della loro indiscutibile utilità pratica.
È in gioco una differenza di statuto etico, una dialettica inesausta che, per esem- pio, Henri Ey e Jacques Lacan affrontarono nel corso di certe celebri Jurnées de Bon-neval, già nel 1946, in era, quindi, pre-psicofarmacologica.
Dove cercare le cause dei disturbi psichici? E con quali mezzi tentare di modi- ficarli? Studiare e ricostruire eventi della vita, stili relazionali, processi mentali e pro-porre parole nel transfert della cura ed esperienze emotive correttive? O interveniresulla fisiologia e sulla fisiopatologia dei meccanismi neurotrasmettitoriali, sulla ba-nalità della follia, come la definiva Ey? Si potrebbe pensare che l’unione faccia la forza e che ricorrere con pragmatismo empirico a entrambi gli strumenti sia automaticamente la soluzione migliore.
Ma è dimostrato che sia sempre così? Mettere in campo insieme interventi che partono da premesse teoriche distanti è un’impresa sempre possibile che ne aumenta 0323 Mente e Cura 2_2011:- 3-09-2012 16:57 Pagina 15 ogni volta la singola efficacia? Ed è un unico attore che deve ricoprire più parti osono diversi musicisti che devono accordare i loro suoni? E come gestire l’intrecciodi transfert diversi e delle proiezioni di ciascuno sull’oggetto-farmaco? Pensando ai disturbi dell’alimentazione, patologie mentali che investono profonda- mente il soma, quale può essere il ruolo del trattamento farmacologico? Nel campo dei disturbi dell’alimentazione come in altri campi della psichiatria, l’ovvia regola ideale è combinare, caso per caso (e non in tutti i casi), la miglior te-rapia farmacologica con il trattamento psicoterapeutico più appropriato, disegnan-do, di volta in volta, la strategia d’intervento in funzione del tipo di patologia e dicomplicanze (indicatori diagnostici) e, soprattutto, delle caratteristiche individuali delsoggetto e della sua domanda di cura (indicatori clinici).
Dalla cloropromazina in poi, molte molecole psicoattive sono state provate nel trattamento delle anoressie, delle bulimie e dell’obesità. Ma a dispetto dei progres-si della psicofarmacologia, i medicamenti riconosciuti utili sono pochissimi e nes-suno ha, finora, mostrato i caratteri di wonder-drug, espressione con la quale si sa-luta in inglese l’avvento di un farmaco di nuova, stupefacente efficacia.
Negli ultimi anni, piuttosto, varie molecole anoressizzanti ad azione centrale, lar- gamente utilizzate in passato nel trattamento del sovrappeso e dell’obesità, sono sta-te riconosciute pericolose e inefficaci e messe fuori legge in molti Paesi.
Albert Stunkard ha ricordato, qualche anno fa, che le conoscenze sui meccani- smi biologici di regolazione dell’introito calorico e della spesa energetica sono mol-to cresciute e sembrerebbe ormai possibile disegnare molecole meglio mirate e piùsicure per il trattamento farmacologico di queste patologie.
Eppure, al momento attuale, solo due farmaci sono riconosciuti ufficialmente ef- ficaci: la fluoxetina per la bulimia nervosa e l’orlistat per l’obesità. Nessun farmacoha invece l’anoressia nervosa tra le sue indicazioni ufficiali.
In effetti, i risultati dei trial dimostrano che nessun farmaco può svolgere un ruo- lo primario abituale nella cura dei disturbi dell’alimentazione e, quanto all’obesità,è noto che il peso perduto con l’aiuto di farmaci è recuperato rapidamente appenasono interrotti.
I trattamenti psicologici rappresentano, quindi, la pietra angolare della terapia La stessa dietoterapia, cuore del trattamento dell’obesità, a pensarci bene, potrebbe essere definita come un intervento psicoterapeutico non formalizzato: psicoterapeutico,perché cerca di modificare con mezzi psichici (informazione, prescrizione, persua-sione ecc.) comportamenti, stili di vita, complessi equilibri personali e familiari; nonformalizzato, perché, in genere, non è preceduto da un’accurata valutazione psico-logica e non è ispirato da una teoria né guidato da una tecnica. È probabile, anzi,che questo difetto sia fra le cause più importanti dei fallimenti collezionati dalle die-toterapie dell’obesità.
0323 Mente e Cura 2_2011:- 3-09-2012 16:57 Pagina 16 Non pensa che la dizione “misterioso salto dalla mente al corpo” meriti, alla luce del- le conoscenze attuali, di essere ribaltata in “evidente salto dal corpo alla mente”? Mi sembra di non condividere la struttura logica della domanda perché conti- nua a partire da una premessa dualista che reifica le entità corpo e mente.
Poi, la prima formula (“misterioso salto dalla mente al corpo” ) ha mostrato da tempo la corda, in particolare nel modello aggressologico di causalità lineare appli-cato in passato alle cosiddette malattie psicosomatiche: emozioni o conflitti psichi-ci che provocherebbero danni somatici.
Infine, malgrado i continui sviluppi delle neuroscienze, il salto dal corpo alla men- te è tutt’altro che evidente per tanti fenomeni. Salverei, quindi, solo l’aggettivo mi-sterioso, parola fra l’altro piena di fascino.
Come vede i sintomi dell’anoressia nervosa dal punto di vista degli effetti biologici Hilde Bruch diceva che a un certo livello di emaciazione è improbabile che qual- siasi psicoterapia ottenga risultati utili.
Con parole diverse, Paul Garfinkel, David Garner e poi molti altri ricercatori- clinici hanno considerato la malnutrizione un fattore di perpetuazione dei sintomianoressici, in particolare delle ossessioni sul cibo e sull’immagine del corpo.
Fattore di perpetuazione, di mantenimento.
Non si fa fatica a capirlo, anche se i processi in gioco restano in gran parte sco- nosciuti. Il cervello è un organo che ha un consumo energetico molto elevato e l’ano-ressia grave provoca una sua atrofia progressiva fino al noto reperto autoptico del cer-vello-prugna-secca. Non dobbiamo dimenticare, però, che i sintomi anoressici, e proprio le suddet- te ossessioni sul corpo e sul cibo, insorgono in una condizione di normopeso e, ta-lora, perfino di sovrappeso. Quindi, la malnutrizione è un fattore di mantenimen-to ma non è la causa determinante né precipitante.
L’eziopatogenesi di questi quadri clinici è complessa o, come si dice, multifat- toriale. E il rapporto problematico con l’immagine del proprio corpo è il nucleo psi-copatologico che precede i comportamenti alimentari abnormi e il calo ponderalee spesso persiste, come uno strato roccioso, anche dopo importanti miglioramentidelle condotte alimentari e del peso corporeo.
Sta parlando di immagine del corpo. Che s’intende oggi con questa espressione? Il concetto di immagine del corpo fu introdotto negli anni Trenta del Novecento, una trentina d’anni dopo quello di schema corporeo.
Intorno al 1935, Paul Schilder, neuropsichiatra e psicanalista, lo definì come il qua- dro mentale che ci facciamo del nostro corpo e aggiunse che l’immagine del corpo nonè semplicemente percezione, sebbene ci giunga attraverso i sensi, ma comporta sche-mi e rappresentazioni mentali, pur non essendo semplicemente una rappresentazione.
0323 Mente e Cura 2_2011:- 3-09-2012 16:57 Pagina 17 Questo punto merita una sosta: l’immagine del corpo per Schilder non è sem- plice percezione e neppure semplice rappresentazione. Non si identifica con i limi-ti anatomici del soma e con i suoi spostamenti nello spazio, che riguardano piutto-sto un altro concetto, quello di schema corporeo.
Schilder parlava di un’immagine vissuta, risultato dinamico di una continua at- tività interna sulla base dei rapporti con il mondo esterno. Insomma, di un corpovissuto, investito da cariche affettive e da giudizi di valore.
È fatale, a questo proposito, ricordare Edmund Husserl che, nella quinta delle sue Meditazioni cartesiane, introdusse le due nozioni di Koerper, corpo-oggetto, eLeib, corpo vissuto. E dimostrò con finezza come l’uomo sia corpo-vissuto semprepronto, però, a precipitare nel corpo-oggetto. La proprietà del corpo – intesa insie-me come possesso-controllo e come peculiarità – è sempre a rischio di essere rove-sciata in oggettivazione e quindi sottratta.
Fra i tanti contributi allo studio dell’immagine del corpo voglio citare ancora solo quello di Françoise Dolto, fondato sulla sua lunga attività di ricerca nel campo del-la psicanalisi infantile.
Dolto definì lo schema corporeo come la nostra vita carnale a contatto con il mon- do fisico e ritenne che fosse sostanzialmente lo stesso per tutti gli individui della spe-cie umana. L’immagine del corpo, invece, sarebbe propria di ciascuna persona, le-gata al singolo individuo e alla sua storia: quindi, alla sua speciale, irripetibile iden-tità soggettiva e alle sue vicissitudini relazionali. Secondo Françoise Dolto l’imma-gine del corpo rappresenta in ogni momento, la memoria inconscia di tutto il no-stro vissuto relazionale.
Schema corporeo e immagine del corpo non sono dunque sinonimi anche se qualche No, non sono sinonimi. I due costrutti sono nati per coprire domini diversi e sono campo di studio di discipline diverse, la neurologia da una parte, la psicolo-gia e la psicopatologia dall’altra.
Schema corporeo e immagine del corpo sono due concetti che riflettono, una vol- ta di più, l’ancora irriducibile dualismo soma/psiche dal quale siamo partiti e checondiziona il nostro modo di pensare; il doppio registro teorico al quale siamo an-cora costretti per descrivere certi fenomeni e, poi, certi altri.
Agli albori della storia di queste idee, si collocano i lavori di due tedeschi, il fi- siologo Hermann Munk e il neuropatologo Carl Wernicke, a cavallo tra la fine del-l’Ottocento e l’inizio del Novecento. Munk attribuì alle sensazioni corporee dei pri-mi stadi della vita un’importanza fondante per la costruzione di un’immagine sta-bile del proprio corpo nello spazio. Wernicke ritenne che l’integrazione dei segnaliprovenienti dai diversi organi di senso consentisse di costruire una sorta di grandeimmagine complessiva del corpo, da lui definita consapevolezza del corpo o soma-topsiche. 0323 Mente e Cura 2_2011:- 3-09-2012 16:57 Pagina 18 In quello stesso giro di anni, l’osservazione di certi singolari fenomeni patologi- ci, definiti aschematie, portò a supporre che il nostro cervello disegni e aggiorni con-tinuamente una sorta di mappa del nostro proprio corpo, uno schema al quale con-tribuiscono dati percettivi e reazioni motorie.
Da tale disegno dipendono giudizi di unità somatica (il mio corpo è uno), di iden- tità (io sono quel corpo, solo quello, sempre quello dalla nascita alla morte) e il sen-so dinamico, aggiornato in tempo reale, della collocazione e dell’orientamento nel-lo spazio, sia del corpo nel suo insieme che delle sue diverse parti fra loro.
Non basta. Per guidare i movimenti il cervello deve integrare le informazioni re- lative al corpo (body schema) con quelle relative agli oggetti e allo spazio che circondail corpo (peripersonal space). Un quesito aperto, fra i tanti, è quello relativo agli stru-menti aggiunti al corpo: un bastone che tengo in una mano, come si integra con ilmio schema corporeo permettendomi di valutare dove posso arrivare con l’aiuto diquello strumento? Come accennavo prima, sono state soprattutto certe condizioni morbose a sol- lecitare la formulazione delle prime ipotesi sulla mappa del corpo.
Nel 1905, l’otologo francese Pierre Bonnier descrisse un’alterazione patologica della rappresentazione del corpo che aveva osservato in casi di labirintopatia. I suoipazienti dichiaravano di percepire il proprio corpo come più grande, più piccolo,distorto o senza confini e il medico inventò il termine francese aschematie per indi-care quella che gli appariva come un’anestesia delle caratteristiche spaziali del cor-po, capace di provocare un disturbo essenzialmente topologico.
Bonnier, dunque, fu il primo a ipotizzare con chiarezza l’esistenza di una rap- presentazione del corpo – topografica, spaziale e dinamica – che permette di orien-tarsi rispetto all’ambiente esterno.
Più tardi, grazie a studiosi come Henry Head, Gordon Morgan Holmes e Arnold Pick, le aschematie sono diventate un capitolo importante della neuropatologia.
I disturbi dello schema corporeo sono definiti negativi quando manca la consa- pevolezza di parti del corpo. Qualche esempio per chiarire il concetto: l’autotopoagnosiaè l’incapacità di indicare parti del corpo in risposta a comandi; la sindrome di Ger-stmann è l’incapacità di riconoscere le dita della mano; nell’emisomatoagnosia è igno-rata metà del corpo, che resta fuori dal campo di coscienza.
Le aschematie positive sono invece quelle nelle quali vi è l’illusione dell’esisten- za di parti del corpo che in realtà mancano. Un esempio classico è la sindrome del-l’arto fantasma degli amputati, descritta per la prima volta a metà del XVI secoloda un grande chirurgo militare francese, Ambroise Paré. Mi viene in mente un’associazione, che ci fa tornare di colpo ai disturbi del- l’alimentazione e del peso. Phantom limb è l’espressione inglese che designa l’artofantasma di Paré. E phantom fat è il modo con il quale alcuni ricercatori hanno chia-mato, per evidente analogia, la sensazione di essere ancora grassi, grassi come pri-ma, che accompagna a lungo soggetti sottoposti a chirurgia bariatrica malgrado la 0323 Mente e Cura 2_2011:- 3-09-2012 16:57 Pagina 19 perdita di decine e decine di chili di peso. Cash et al. hanno chiamato questa trac-cia persistente, vestigial effect.
La questione delle aschematie è, naturalmente, piena di incertezze anche su pun- ti cruciali. Ad esempio, in un classico lavoro sullo schema corporeo, Arnold Pick,discutendo il fenomeno degli arti-fantasma degli amputati, sostenne che in caso dimancanza congenita di uno o più arti, questa aschematia positiva non si verifica. Lasua tesi, confermata da alcune ricerche successive, sembrava avvalorare l’ipotesi se-condo la quale lo schema corporeo si disegnerebbe a partire dall’esperienza del cor-po reale di ciascuno e non sarebbe un modello a priori. Altri studi, però, hanno smen-tito questo enunciato. Ne ricordo uno solo. In anni molto più recenti, Melzack etal., studiando soggetti con mancanza congenita di arti o amputazioni precoci avvenutenei primi anni di vita, hanno riscontrato il sintomo dell’arto-fantasma in un discretonumero dei primi e nella metà circa degli altri.
In quali settori della medicina e della psichiatria ha rilievo clinico il disagio per il proprio sembiante, quella condizione che a volte prende il nome di immagine negativadel corpo? Lo studio dell’immagine del corpo riguarda vari settori clinici: non solo il disturbo di dismorfismo corporeo e i disturbi dell’alimentazione, ma anche le reazioni a de-formità congenite, malattie sfiguranti, alterazioni dell’aspetto fisico dovute a even-ti traumatici o a terapie, mediche o chirurgiche.
Nei primi anni Sessanta del secolo scorso, Hilde Bruch è stata fra i primi Auto- ri a sottolineare i difetti e le distorsioni dell’immagine corporea e delle percezionienterocettive nell’anoressia nervosa. Ha anche, giustamente, insistito sul valore dia-gnostico e, forse, prognostico di questo sintomo nucleare nella psicopatologia ano-ressico-bulimica. Ma solo una ventina d’anni dopo, i sistemi di classificazione deidisturbi mentali hanno accolto questa tesi. E a differenza dei Feighner Diagnostic Cri-teria del 1972, sia il DSM-III del 1980 che le edizioni e revisioni successive hannoconsiderato la presenza di disturbi dell’immagine corporea un elemento essenzialeper la diagnosi di anoressia nervosa.
Voglio soffermarmi brevemente sull’espressione che lei ha usato: ‘immagine ne- È interessante l’introduzione, piuttosto recente, di questo concetto-ombrello che raccoglie condizioni diverse, accomunate da un profondo, invalidante disagio lega-to all’immagine fisica di sé. La negative body image, secondo la definizione di JamesRosen, comprende non solo le preoccupazioni legate a difetti immaginari (la clas-sica dismorfofobia di Morselli), ma anche quelle focalizzate sul peso e sulle formedel corpo (anoressia nervosa e bulimia nervosa) e quelle, infine, che dipendono daun particolare, intensissimo malessere con il quale un soggetto vive un’anomalia og-gettiva del sembiante come un’obesità grave, una dermopatia sfigurante o una mu-tilazione. Un corpo obeso, ad esempio, può essere portato nel mondo con disinvoltura, 0323 Mente e Cura 2_2011:- 3-09-2012 16:57 Pagina 20 perfino con maestosa eleganza, oppure con imbarazzo, vergogna, estremo disagio.
I disturbi dello schema corporeo sono patologie neurologiche riconducibili in genere ad alterazioni somatiche. Sul ’immagine del corpo, invece, pesano molto i fattori ambientali,sociali e culturali. Che ne pensa? La rappresentazione mentale del proprio sembiante è profondamente iscritta nel contesto socio-culturale di appartenenza.
Un campo di ricerca importante e molto frequentato è proprio il peso dei fat- tori macrosociali, dei valori estetici propri di ogni cultura che gravano sulla cernie-ra che lega l’immagine del corpo al senso del proprio valore, alla stima di sé.
Lo stigma sociale che colpisce l’obesità rientra, ad esempio, in questo campo di fenomeni. Tende a persistere (gli Autori di lingua inglese parlano di residual bias) an-che dopo una consistente perdita di peso. E, in ogni caso, la sua attenuazione di-pende in buona parte dal metodo seguito per dimagrire: la chirurgia bariatrica, adesempio, fa salire meno della dieta la stima sociale per una persona obesa che ha per-so peso.
All’alba del terzo millennio coesistono nel mondo, fianco a fianco, differenze cul- turali persistenti e assimilazioni sostenute dalla diffusione globale degli stessi stereotipimass-mediatici.
Nei paesi occidentali, ad esempio, è diffusa la muscle dysmorphia o bigorexia (in italiano con un brutto anglicismo bigoressia o, forse meglio, vigoressia), anoressia ner-vosa a rovescio che colpisce soprattutto giovani maschi, ossessionati dalla ricerca diun corpo sempre più grande, muscoloso e possente. Tra questi body builders, dedi-ti all’esercizio fisico in modo compulsivo, è frequente l’abuso di steroidi anaboliz-zanti. Gen Kanayama et al. considerano queste sostanze body image drugs al pari diquelle di cui si può far abuso per perdere peso, le slim balls (anoressanti, lassativi,diuretici, ecc.).
A Taiwan, invece, gli uomini sembrano ancora poco preoccupati per la loro im- magine e, in particolare, non sembra affatto diffuso il mito di un corpo ipermuscolare. Il contagio da parte dei modelli estetici occidentali è avvenuto, invece, tra le gio- vani donne delle isole Fiji. Arthur Crisp definì questa storia a tale of corruption. Nel-lo scorcio finale del Ventesimo secolo, dopo l’arrivo della televisione, le ragazze fi-jiane hanno abbandonato, in pochi anni, la predilezione per corpi femminili abbondantie formosi che era tradizionale nella loro cultura. Hanno cominciato a prediligere,invece, figure magre e sottili e a manifestare comportamenti alimentari abnormi.

Source: http://www.menteecura.it/n2-2011/pdf/2.Interviste%20a%20M.%20Biondi%20e%20M.%20Cuzzolaro%202_2011.pdf

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